Il termine coscienza, nel corso della storia recente dell’umanità, ha espresso una moltitudine di significati, in merito alle interpretazioni teologiche, filosofiche e psicologiche. Allo stesso tempo, l’inconscio, a causa del pensiero di Freud, è stato considerato un archivio di contenuti in precedenza consapevoli, un luogo in cui sono spediti e tenuti segreti i pensieri ed i ricordi ansiogeni. Per tali motivi, per non cadere in facili speculazioni, è sempre più frequente nelle neuroscienze, il tentativo di utilizzare i termini di consapevolezza e di inconsapevolezza. Non vi è dubbio che l’uomo possegga, non solo la consapevolezza del sè e del non sè , ma anche la consapevolezza di avere tale conoscenza, in forma soggettiva, ovvero privata (metacognizione).
Altra difficoltà è rappresentata dal fatto che, sovente rendiamo pubblica tale conoscenza, in quanto possiamo parlarne. Da sempre, la presenza di un resoconto verbale rappresenta la migliore prova del fatto che, quella persona è consapevole di “qualcosa”. Per tale motivo, ci siamo spinti a dire che l’esperienza conscia è intrecciata con la capacità di riferire l’esperienza, ovvero dipende da essa (il filosofo Dennet). E’ esperienza comune che, nella nostra vita quotidiana, usiamo il linguaggio per etichettare e descrivere le “nostre” percezioni, i ricordi, i pensieri, i desideri, i sentimenti e, soprattutto, le credenze. Proprio per una nostra credenza, presumibilmente, quando incontriamo un soggetto con autismo non verbalizzato, ci poniamo la questione: capisce o no?.
Quando, ad un altro filosofo (Nagel), fu posta la domanda:”cosa si prova ad essere un pipistrello?”, la sua risposta fu, che era cosa da pipistrello, ossia qualcosa che un essere umano non potrebbe mai veramente comprendere perchè le nostre ESPERIENZE sono diverse. Ma un medico non è un filosofo, lui non “gioca” con il pensiero, “gioca” con il bisogno d’aiuto dei suoi pazienti. Può decidere di farsi carico del problema senza fare un ulteriore sforzo per migliorare la sua “consapevolezza”?
Le neuroscienze stanno affrontando la questione da un’altra prospettiva. Stanno cercando di stabilire quali eventi cerebrali sono necessari per avere consapevolezza, e quali eventi cerebrali possono essere riferiti verbalmente e quali no. Se, grazie ai progressi delle neuroscienze (Kandel) , abbiamo compreso che, quando usiamo il termine mentale ci riferiamo al nome che diamo a stati cerebrali (neurostati) che hanno proprietà fenomeniche (psicostati), possiamo provare a decifrare, da indagini di semeiotica medica, i neurostati?. Quali modelli teorici possono aiutarci ad uscire da quegli schemi che ci fanno considerare “ritardati” coloro che non verbalizzano?.