L’errore più grave commesso dalle scienze cognitive del vecchio millennio è stato quello di farci pensare che, in quanto uomini, fossimo “creatori” di tempo e spazio, come di tutti quei concetti “altamente astratti”. Le neuroscienze moderne hanno con forza ribadito il concetto che spazio e tempo, come tutte le funzioni mentali, appartengono, in modo esclusivo, alla percezione sensoriale dell’uomo. Anche se, accettare tale nuova conoscenza dovesse richiedere un cambio di prospettiva profondamente radicale, un andare fuori dagli schemi per tutti noi, le implicazioni, sui nuovi modelli terapeutici per le patologie del neurosviluppo, così come quelle per la pedagogia e l’educazione, sarebbero davvero impressionanti.Proviamo con qualche esempio a comprendere meglio l’essenza di tale rivoluzione scientifica.
Dimostriamo interesse per i volti fin dalla nascita. Già dalle prime ore di vita i neonati mostrano attenzione per i volti. Gli esseri umani vedono i volti, non individuando prima i singoli elementi ma, percependoli in modo olistico. Infatti, quando osserviamo i volti in maniera capovolta l’abilità e la rapidità con la quale li riconosciamo cala sensibilmente. Esiste un’area corticale :”area fusiforme per il volto” (FFA dx) che è fortemente attivata, non solo quando i soggetti osservano i volti ma, anche quando , li immaginano. Inoltre, un danno in quest’area ( ictus, tumore) produce prosopagnosia (non riconoscimento dei volti). Qualche decennio fa, quando le neuroimmaging ci consentirono di acquisire tali preziose informazioni, i “vecchi cognitivisti” avanzarono nuove pretese, per affermare la loro teoria del cervello modulare. Infatti, a loro avviso, tali dati andavano a rafforzare la teoria , secondo la quale, il cervello umano può essere paragonato ad un coltellino svizzero, le cui componenti sono fatte per svolgere compiti specifici(modulo dei volti, modulo dei colori, modulo della mente, etc). Per fortuna, l’ipotesi di un modulo innato dedicato al riconoscimento dei volti, come a quello della mente, pur rivelandosi molto influente nell’ambito delle neuroscienze cognitive, non è riuscito a dare risposte a quesiti di grosso interesse scientifico. Per tale motivo, all’interno delle neuroscienze, tale approccio è divenuto sempre meno plausibile (purtroppo ciò non è valso per la cura dell’autismo).
Vediamo dove fallisce la terapia cognitiva classica, ovvero la teoria del coltellino svizzero.Utilizzeremo quale esempio un’abilità mentale tipicamente umana: la lettura.
Dai 4 ai 7 anni i bambini prendono confidenza con le lettere ed apprendono la relazione che le lega ai suoni (1). Leggono le parole leggendo ogni singola lettera ed analizzando la parola (lettura fonemica e successivamente sillabica). Le cose cambiano quando il bambino raggiunge, dopo gli 8 anni, un ‘effettiva fluidità, in tal caso dimostra una relazione con le parole qualitativamente diversa da quella manifestata quando era lettore neofita. Non a caso, il lettore esperto legge in maniera globale. Nel FFA dell’emisfero sx esiste un ‘area che risponde alla presenza visiva di parole.Quest’area si attiva ogni qual volta guardiamo una sequenza di lettere sia che formino una parola che una non-parola. Inoltre, qualora un ictus o un processo espansivo danneggi quest’area si produce un deficit specifico nella percezione delle parole scritte. Dunque, se dovessimo possedere un modulo prestabilito per il riconoscimento dei volti ,significa che, nel nostro cervello deve esserci anche un modulo prestabilito per la lettura. Eppure, la lettura è un’invenzione culturale comparsa recentemente nella storia evolutiva dell’uomo. Inoltre, tutti gli uomini hanno dimestichezza con i volti, mentre solo chi è stato educato alla lettura si mostra abile a leggere le parole, pertanto, sul nostro pianeta, moltissimi uomini vedono volti ma, ancora, non leggono.
La verità è che tutte le persone sono esposte alla PERCEZIONE dei volti fin dalla nascita, mentre solo pochi fortunati lo saranno alle parole nella loro infanzia. Questi fortunati, quando sono esposti alle parole scritte, non potranno non leggere, come non possono non riconoscere i volti. L’ESPERIENZA è tutto. Basta pensare a come, da occidentali, si abbassa la nostra abilità nel discriminare i volti asiatici e/o africani.
SIAMO PIU’ BRAVI A DISCRIMINARE I VOLTI DELLE PERSONE CON CUI SIAMO PIU’ FAMILIARI.
Anche il riconoscimento dei volti,come tutte le nostre abilità mentali,sono frutto di un processo di apprendimento. Anche se i volti sono speciali, non esiste nel nostro cervello un’area neurale specifica per trattarli. Allo stesso tempo, non esiste una struttura speciale per la mente.Viviamo una nuova era, quella del biocognitivismo, impareremo molto dalle neuroscienze della percezione.
(1) Le parole che leggiamo prendono forma nel nostro cervello nell’area corticale visiva per le parole (FFA sn) che, pur essendo un’area visiva, è intimamente connessa con aree del linguaggio. Sappiamo che gli uomini hanno imparato a leggere circa 5000 anni fa, un tempo brevissimo per considerare l’area FFA sn un modulo specifico per il linguaggio. Nel Massachusetts Institute of Technology, alcuni ricercatori hanno studiato il cervello di un gruppo di bambini, dai 5 agli 8 anni, prima e dopo aver imparato a leggere. Alla vista delle parole,a 5 anni, le scansioni cerebrali non rilevavano attività neuronale, mentre ad 8 anni, la lettura eccitava i neuroni dell’area specifica. A 5 anni, però, erano già presenti i collegamenti tra la specifica area visiva e le aree del linguaggio. Lo studio dimostra che, in origine, l’area specifica della lettura è, esclusivamente, un’area visiva. Essendo però connessa ai circuiti del linguaggio, qualora l’ambiente dovesse fornire l’opportunità di leggere, si specializza in questo compito. La funzione non è specificata dalle proprietà intrinseche dell’area, bensì dalle connessioni dei neuroni.