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“L’interprete autistico”

Non vi sono più dubbi, il nostro sviluppo neurologico e, dunque, il nostro modo di divenire individui (con un comportamento normale o patologico), è plasmato dalla pressione ambientale ed evolutiva. Infatti, il nostro cervello, non meno del nostro cuore o delle mani, si è evoluto all’interno di una particolare situazione ambientale, sotto la pressione selettiva idonea per quella situazione. Appare sempre più evidente che le nostre abilità cognitive non possano essere prerogativa di una porzione del nostro cervello. Qualunque area cerebrale, anche tra quelle evolutivamente più recenti, al punto da essere considerate specificamente umane, seppur ben organizzata, non sarebbe sufficiente per fornirci il cognitivo che possediamo, qualora non venisse compresa all’interno dell’attività di tutto il sistema nervoso, che viene ad essere plasmato dalla vita dell’intero organismo, ovvero dalle opportunità ricevute. Come già ampiamente ricordato negli articoli precedenti, quando “prendiamo una decisione corretta” significa che, quel cervello, ha selezionato “un neurostato corretto”, allo stesso tempo, dobbiamo sempre ricordare che, lo stato attuale del “mio” cervello (neurostato) dipende dai “miei” stati digestivi e metabolici, da dove mi trovo e con chi mi trovo, da cosa “mi” capita di fare. L’attività fisica, il consumo di bevande e/o determinati alimenti, gli stati emotivi, i cicli del sonno, influiscono sul neurostato che si selezionerà e, dunque, sulla performance (psicostato). Allo stesso tempo, se muovo gli occhi in una direzione, o con la mano manipolo un oggetto, modifico il mio neurostato, conseguenzialmente la mia cognizione. Il mio essere cognitivo non è prerogativa del “modulo della mente” o della corteccia pre-frontale ventro-mediale. Il mio essere cognitivo è rappresentato da una condizione cerebrale (neurostato) fissata da una continua interazione dinamica tra me e l’ambiente che mi circonda, ove per ambiente mi riferisco sia a quello fisico in cui mi trovo (sensoriale), sia a quello biologico (interocezione).

I cognitivisti hanno commesso due gravissimi errori:

1)si sono mostrati presuntuosi nel voler definire i processi cognitivi (nello specifico del blog, quelli relativi ai soggetti con autismo), a prescindere da tali nuove informazioni, pertanto, chi “fallisce” nelle prove viene tuttora considerato un soggetto con il “modulo rotto”, ovvero con ritardo mentale e bisognevole di condizionamento.

2)hanno considerato la percezione un processo, per mezzo del quale, un’immagine del mondo viene ad essere costruita nel nostro cervello che, grazie ai moduli superiori, “correttamente la interpreterà”. Purtroppo per loro, la nostra relazione con il mondo non è paragonabile a quella di un INTERPRETE. Non possiamo rinchiudere il mondo in un’interpretazione. Posso interpretare solo dopo che il mio neurosviluppo mi consentirà di avere il mondo in pugno. L’autismo, non dimentichiamolo mai, fa il suo esordio, di norma, tra i 12 ed i 18 mesi di vita. In quella fase non ho in pugno nè il linguaggio, nè tanto meno, la relazione.

Nessun dato delle neuroscienze attuali conferma il modello teorico su cui fondano le radici i cognitivisti.

Per le neuroscienze attuali, la percezione è l’attività mediante la quale accediamo a ciò che ci circonda utilizzando diverse abilità. Il soggetto con autismo, per una condizione che altera il suo neurosviluppo, accede a ciò che lo circonda utilizzando abilità differenti dalle persone che, quel problema del neurosviluppo, non l’hanno avuto. Il compito del cervello non è quello di generare il cognitivo. Il compito del cervello è quello di rendere possibile la relazione che intratteniamo con l’ambiente che ci circonda. Il soggetto con autismo è “diverso” non perchè è cognitivamente ritardato. Egli è “diverso” perchè la sua dinamica cervello/corpo/ambiente risulta essere “diversa”. Non mostra una problematica di ritardo mentale e, dunque, cognitiva classica. Egli evidenzia un’ “anomalia biocognitiva” ovvero, ha sviluppato, biologicamente, una relazione differente con il mondo che lo circonda.

Qualora dovessimo prestare poca attenzione a questo particolare, non solo potremmo fallire nel percorso terapeutico ma, addirittura, potremmo generare “disastri”.

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