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Anatomia delle emozioni

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Fig1.                                                                                                    Fig.2

Immagini tratte da “Il cervello emotivo” di Joseph LeDoux

 

Ha ancora senso, in termini scientifici, parlare di emozioni o di un meccanismo che regola le emozioni?

In effetti i circuiti corticali ed i neurotrasmettitori che supportano le diverse emozioni sono sovente molto differenti. Inoltre, anche quando ci occupiamo di una specifica emozione, ad esempio la paura, non possiamo pensare che la paura evocata da qualcuno che improvvisamente salta fuori dal buio non sia distante dalla paura che un altro possa improvvisamente scomparire o, ancor più, che la borsa possa crollare. Di certo non appare sufficiente per la comprensione scientifica la semplice operazione di identificare un numero di emozioni di base, che in origine fu fissato a sei, per essere poi incrementato nel tempo. Sostengo che, qualora volessimo fare strada nella comprensione di alcune questioni, come, per esempio, sul cosa possa generare un’azione da noi “etichettata” emozione oppure, di quale complessità deve essere dotato un sistema nervoso per generarla o, ancora, se quest’azione (emozione) viene generata anche in un soggetto con autismo, dovremmo “uscire dagli schemi” prodotti dalla fallacia psicologica, che ha voluto confondere il punto di vista dell’osservatore con quello del fatto osservato.

Le emozioni rappresentano strategie comportamentali atte a regolare risposte complesse, coordinate ed automatiche. Immaginiamo di camminare di notte nei pressi della stazione ferroviaria di una metropoli occidentale. All’improvviso, alle nostre spalle, avvertiamo un rumore (stimolo sensoriale uditivo). Queste vibrazioni d’aria, trasdotte in energia nervosa dai recettori cocleari, raggiungono l’amigdala (fig. 1) che mette in atto un comportamento difensivo. Successivamente, l’informazione nervosa raggiunge le cortecce, prima quella sensoriale e poi le associative, consentendoci di conoscere che il rumore è stato provocato casualmente da uno sprovveduto più spaventato di noi. L’attivazione delle cortecce cerebrali avrà, più il compito di impedire la risposta sbagliata (automatica), che di produrre quella giusta (la funzione dei neuroni corticali è quella di inibire). Di certo, evolutivamente, è ancora utile avere un sistema veloce, che consente di reagire a delle circostanze potenzialmente pericolose come se lo fossero davvero, che non reagire affatto. In effetti, confondere uno sprovveduto per un ladro costa meno del contrario. Per tutti questi motivi possiamo affermare che, anche se i circuiti subcorticali forniscono un’immagine molto rozza del mondo esterno e, pertanto, possono garantire solo disposizioni (organizzazione prevalentemente modulare e, dunque, scarsamente integrata), mentre le cortecce cerebrali, grazie alla loro organizzazione a rete, altamente integrata, forniscono rappresentazioni, vista la velocità con la quale garantiscono la risposta, essi sono ancora estremamente utili per la sopravvivenza.

Un modello così proposto, pur soddisfacendo sia il criterio biologico che quello evolutivo, non garantisce il successo, sia in campo clinico (distinguere le cause dalle conseguenze) che terapeutico. Pur consentendo di migliorare le conoscenze rispetto ad un passato molto recente, il modello proposto (Fig.1) mostra un evidente limite ideologico : cercare nel cervello umano aree “creative”, oppure neuroni “speciali”, o sostanze “magiche”. Il blog ha più volte ribadito che nessun comportamento, nè automatico, nè consapevole, può essere compreso al di fuori di un dinamismo cervello/corpo/ambiente (teoria sensori-motoria). Nessuno può dubitare sulla profondissima differenza che intercorre tra incontrare un leone allo zoo mentre ci gustiamo, in compagnia, zucchero filato, o incontrarlo da soli in un viaggio d’avventura. O, ancora, per un calciatore tirare un calcio di rigore in allenamento o all’ultimo istante di una finale, con punteggio incerto. In entrambi i secondi casi si mettono in atto azioni (sudorazione, midriasi, aumento dei cicli respiratori e dell’afflusso di sangue agli arti) che non compaiono nei primi contesti (Fig.2). Sono queste azioni l’argomento che il blog, da circa un mese, sta trattando (emozione). Avere un’esperienza emozionale è provare qualcosa, ovvero avere un’esperienza percettiva paragonabile alle esperienze sensoriali, provocate dall’essere toccati, dal sentire un suono, o dal fumare un sigaro. Provare un’emozione rappresenta un’attività sensoriale. Infatti, le emozioni sono sempre dirette verso caratteristiche dell’ambiente, hanno sempre un loro oggetto. Ancora una volta i cognitivisti ci hanno condotti fuori strada. Affermare che una persona piange perchè è triste induce a pensare che il comportamento manifesto (piange) sia l’effetto meccanico causato da un evento interno interpretativo (emozione) che causa. Ma le EMOZIONI non sono le cause dei comportamenti, esse sono i psicostati dei neurostati. Ancora una volta siamo usciti dagli schemi. Rifiutiamo ogni proposta creazionista. Non è la psiche a creare le emozioni, così come non lo è il cervello. L’emozione è qualcosa che si genera dall’intreccio inestricabile delle interazioni dinamiche tra componenti sensoriali e componenti motorie.

 

 

 

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