Nella bella città di Salerno, all’interno del Palazzo di città, nel Salone dei Marmi, si è svolto, ieri pomeriggio, un interessante convegno/incontro di aggiornamento su questioni di “neurodidattica”.
L’importanza dell’argomento non può, di certo, sottrarsi alle attenzioni del blog, ben consapevole che per i bambini con autismo il percorso scolastico, ed in particolar modo l’inizio della scuola, può essere traumatico. Infatti, sovente, la loro difficoltà a gestire la nuova situazione può tradursi in una intensa agitazione comportamentale.
Solo attraverso una migliore conoscenza del quadro sindromico da parte delle insegnanti e, soprattutto, grazie ad una forte alleanza con le famiglie si potrebbe ridurre il disagio, consentendo di preparare il bambino in anticipo ed instaurando, fin da subito, una collaborazione positiva tra scuola e famiglia.
Per tale motivo hanno preso parte ai lavori genitori di soggetti con autismo e pedagogisti.
Il signor Sergio Martone, genitore di soggetto con autismo, si è soffermato su quanto accaduto in Italia negli anni (dalla metà del secolo scorso ad oggi) e sul cosa possiamo immaginare per il futuro dell’autismo. Per Martone: “Apparve subito in maniera chiara che, oltre alla carenza di cure risolutive e una diagnosi totalmente infausta, nel caso dell’autismo, c’era anche, cosa inusuale, una forte contrapposizione che vedeva i tecnici e genitori schierati su due fronti opposti. Da una parte, i tecnici, con una contrapposizione che considerava l’autismo un disturbo di tipo psicotico e che pertanto, anche se in forma velata, ritenevano i genitori la causa del disturbo dei loro figli e, dall’altra parte, i genitori, sconvolti da accuse così angoscianti che respingevano in pieno, e che, percependo in maniera istintiva che l’autismo presentava molti lati oscuri agli stessi tecnici, restavano completamente disorientati e assolutamente incapaci di decidere su qualsiasi iniziativa da intraprendere. In conseguenza di un tale contrasto, le famiglie erano poste davanti a un drammatico dilemma: o ci si adeguava rassegnandosi a una vita che presentava la minaccia continua di poter sfociare anche in tragedie, come quelle riportate nelle cronache, dell’uccisione della persona autistica da parte del genitore, oppure, ci si faceva coraggio e, si cercava di scoprire, gettandosi in una ricerca disperata, se vi fossero delle alternative anche minime, a qualcosa che si riteneva inaccettabile”.
Nonostante gli sforzi sostenuti negli anni dai genitori e dalle loro associazioni, oltre che da associazioni di servizio, per Martone la situazione attuale resta buia poichè “… le nuove scoperte scientifiche non hanno determinato alcuna variazione a livello istituzionale in quanto i tecnici preposti sono rimasti tenacemente legati alle tradizionali interpretazioni del disturbo. Lo stesso manuale mondiale della psichiatria, il DSM-V, pur avendo riconosciuto, in maniera definitiva, l’autismo quale sindrome appartenente alla sfera dei disturbi del neurosviluppo cioè delle alterazioni strutturali del cervello, e, dunque, confermando in pieno quanto pochi tecnici e molti genitori avevano affermato per anni, spazzava via qualsiasi interpretazione psicologica, ma non faceva svanire le difficoltà del passato. Infatti, un cambiamento così radicale, che riconosceva l’autismo come uno stato conseguente a un’alterata traiettoria dello sviluppo neurologico, imponeva, come prima urgente azione, la programmazione di una numerosa serie d’interventi per informare le famiglie coinvolte sul cambiamento avvenuto nel disturbo e, quindi, il rinnovamento dell’approccio alla sindrome con la partecipazione di nuove figure professionali che avessero una preparazione accademica diversa da quella precedente e più vicina alle nuove scoperte. Un tale compito non è stato minimamente affrontato a livello istituzionale e, nell’autismo, tutto è continuato come se nulla fosse accaduto. Pertanto, ancora oggi, un bambino con disturbo del comportamento può giungere ai suoi 3-4 anni di età, senza essere stato sottoposto, da parte dei tecnici interpellati, alla benchè minima indagine strumentale neurologica, determinando così, nei genitori, un’interpretazione unicamente psicologica dell’origine dei suoi problemi”……………”I tecnici preposti al disturbo, essendo gli stessi del precedente periodo e quindi portatori di un bagaglio di conoscenze distante dalla reale essenza della sindrome, si danno da fare a cercare di mettere insieme le vecchie conoscenze con le nuove acquisizioni”.
Alla luce delle nuove ricerche è stato chiesto alla Professoressa Maria Luisa Iavarone, Professore Ordinario di Pedagogia e Didattica Generale dell’Università di Napoli Parthenope di aggiornare i presenti sui possibili interventi che la neurodidattica può proporre per le persone affette da disturbo dello spettro autistico.
La professoressa ha sottolineato come, nel nostro paese, la diagnosi di autismo viene fatta con un ritardo di mesi o anni, sottraendo la possibilità di un intervento riabilitativo precoce. Inoltre, gli approcci al problema, anche in ambito scolastico, sono prevalentemente orientati sul tentativo di modificare il comportamento del soggetto attraverso la correzione del sintomo. Tali approcci portano la maggior parte delle insegnanti a pensare all’autismo secondo un modello deficitario (non guarda negli occhi, non presta attenzione, non scrive, non legge, ecc.), ottenendo, nel migliore dei casi, quale risultato di questi approcci, un abbassamento dell’autostima del ragazzo. Lo stesso uso di espressioni negative e svalutanti (dal non essere capace di apprendere al non poter partecipare alle gite scolastiche) sovente negano il diritto alla dignità ed al rispetto.
Studi recenti, secondo la Iavarone, propongono un cambio di paradigma nell’interpretazione dei Disturbi dello Spettro Autistico, inducendo a riflettere su modalità di intervento rieducativo concettualmente diverse dagli approcci tradizionali. La comprensione che nell’autismo il “disturbo sensoriale” rappresenta un sintomo nucleare impone un cambio di paradigma anche in sede educativa e didattica, suggerendo un ripensamento del lavoro scolastico sia sul piano della relazione formativa sia su quello delle tecnologie dell’apprendimento e per l’apprendimento.
Secondo la Professoressa la situazione attuale è drammatica, il modo ottimale per migliorarla sarebbe quello di considerare le difficoltà relazionali e sociali dell’alunno con autismo non la causa del problema ma la conseguenza. Infatti, un modello non più sui principi deficitari, ma su quello della neurodiversità, ci porterebbe a guardare questa particolare condizione con le lenti della diversità umana, che offrono la possibilità di notare il loro caratteristico modo di filtrare gli stimoli sensoriali. Questo porterebbe da subito, da parte delle insegnanti, a non pretendere, da un alunno autistico, il contatto visivo, al semplificare l’aula dagli stimoli visivi, al non pretendere la condivisione dello spazio personale, al dosare tutti gli stimoli sensoriali, oltre che, al proporre attività motorie funzionali. Inoltre, grazie a questo nuovo approccio, i genitori sarebbero chiamati a fornire alla scuola il “profilo” del bambino, con i suoi cibi, i giochi ed i programmi preferiti, la sue difficoltà e le cose che lo disturbano, i comportamenti che mette in atto quando è a disagio, gli stimoli che possono calmarlo o rassicurarlo.
Vorrei aggiungere che, a mio avviso, sarebbe opportuno che il bambino potesse visitare più volte la scuola subito dopo l’iscrizione, prima dell’inizio della frequenza vera e propria, per poter prendere confidenza con il nuovo ambiente. Allo stesso tempo l’insegnante dovrebbe visitare il bambino presso la sua abitazione, per osservarne alcuni comportamenti utili per la diagnosi sensoriale.