Nel 1870 nacque nelle Marche (Chiaravalle) Maria Montessori, medico (una delle primissime donne nel nostro paese), psichiatra e, soprattutto, educatrice. L’ostilità da parte dei colleghi verso un medico donna e, in particolar modo, lo spirito di servizio verso i deboli (bambini cerebrolesi) la condussero a vivere intimamente con “i ritardati”. Questo le permise di osservare come le esperienze dirette fossero capaci di “formare” la mente del bambino (erano anni in cui si conosceva pochissimo sulla biologia del sistema nervoso). Per la Montessori, già un secolo fa, era ovvio che il cervello avesse bisogno di fare esperienze tattili e motorie affinchè si sviluppassero le aree del linguaggio e del pensiero astratto.
Potremmo dire che, un secolo fa, la “mente infantile” appariva già CONCRETA (non metafisica) in quanto il rapporto tra sensi e motricità rivestiva un ruolo centrale nel suo sviluppo (nascita della neuropedagogia).
Più volte, nei precedenti articoli del blog, “a proposito di autismo”, ho manifestato preoccupazioni e senso di pessimismo sull’attuale situazione sanitaria. Questo perchè, attualmente, all’interno della neuropsichiatria infantile e della psicologia clinica, nel nostro paese, vi è una confusione ed una contraddizione maggiore rispetto a qualche decennio fa. Innanzitutto, c’è la presunzione di prescrivere protocolli terapeutici a prescindere dalla comprensione biologica del quadro clinico ma, esclusivamente, basati su deficit descrittivi (non si gira se chiamato, non sta fermo, non ascolta, non guarda negli occhi, non manipola gli oggetti, si picchia e/o si agita, ecc.). Inoltre, non vi è alcuna volontà di “oggettivare” l’osservazione, ovvero cercare di dare un senso a quanto osservato ricorrendo all’anatomia ed alla fisiologia del Sistema Nervoso, oltre che all’evoluzionismo (ogni comportamento, anche il più bizzarro, è adattivo).
Eppure, una speranza dobbiamo sempre averla e, questa, potrebbe generarsi dall’incontro tra neuroscienze ed insegnamento.
Le neuroscienze hanno appurato che, lo sviluppo del cervello è in gran parte un processo dipendente dall’esperienza, in termini sia positivi che negativi. In effetti, i nostri sensi ci aprono ad esperienze che lasciano una traccia nell’intricata rete di circuiti nervosi di cui è costituito il nostro cervello. Sono proprio questi circuiti nervosi, e l’attività elettrochimica o nervosa da loro espressa, che ci consente di dare un senso alla realtà (compreso noi stessi). Questa attività nervosa, all’inizio della nostra vita spontanea, ben presto viene ad essere modellata dall’esperienza sensori-motoria, capace di modellare la struttura del cervello.
Allo stesso tempo, l’educatore sa che sorridere, parlare, rispondere in maniera appropriata al pianto di un lattante, raccontargli una storia, dargli la possibilità di afferrare oggetti, di strisciare, di gattonare e, poi, di camminare e correre, oltre che di giocare, sono il modo di svolgere la propria professione.
In sintesi,i risultati delle neuroscienze ci dicono che l’educazione ha il compito di DARE FORMA al cervello.
La Montessori aveva ragione. Quello che lei sapientemente aveva intuito e descritto trova una spiegazione scientifica nel concetto di PLASTICITA’ NEURONALE.
Il cervello umano è capace di generare nuovi neuroni (neurogenesi) e, soprattutto, nuove sinapsi (punti di contatto tra neuroni) grazie all’attività sensori-motoria. Pertanto, i fattori educativi intervengono nel processo di modificazione, sia strutturale (anatomia) che funzionale (fisiologia), del cervello.
Grazie allo studio dell’EPIGENETICA (sopra l’eredità familiare), oggi conosciamo come gli stimoli ambientali che si manifestano nel corso della vita sono capaci di regolare l’espressione dei nostri geni.
Mentre fino a qualche decennio fa si riteneva che il meccanismo di trasmissione ereditaria dipendente dal DNA fosse incondizionato dall’ambiente in cui avveniva, oggi conosciamo come, i processi di trascrizione genica e l’espressione dei geni siano regolati dagli apprendimenti, ovvero dalle esperienze sensori-motorie (attraverso il processo di metilazione del DNA). Questa nuova conoscenza, mentre ha lasciato indifferenti i neuropsichiatri infantili e molti psicologi clinici, ha allertato i pedagogisti su quali conseguenze reali potrebbero aversi, al fine dell’apprendimento scolastico, in merito a quanto oggi verificatosi nella società occidentale: contrazione dei giochi all’aria aperta, scarsa attività motoria libera, gioco virtuale e non coinvolgente altri bambini.
E’ possibile che i genitori dei bambini con autismo possano incontrare una nuova generazione di professionisti (neuropedagogisti) capaci di dare informazioni giuste sul fatto che, atteggiamenti e comportamenti, anche bizzarri, dipendono da come è fatto e funziona quel cervello?