Come già riportato in precedenti articoli del blog, per molto tempo si è pensato che il sistema nervoso fosse un sito immuno-privilegiato. Per i ricercatori, era convinzione diffusa che il sistema nervoso non fosse difeso dal sistema immunitario in quanto, il cervello veniva considerato: sprovvisto di vasi linfatici; privo di cellule appartenenti al sistema immunitario e provenienti dal sangue; capace di proteggersi dall’invasione di sostanze di qualsivoglia tipo, cellule immuni comprese, mediante barriera emato-encefalica.
Tutte queste conoscenze contribuirono a sviluppare una credenza diffusa, secondo la quale venivano formate generazioni di medici, che ritenevano che il sistema nervoso funzionasse senza albergare al suo interno qualsiasi cellula immunitaria. Tale privilegio veniva spiegato come un adattamento evolutivo finalizzato “a proteggere le strutture vitali del cervello dagli effetti potenzialmente dannosi dell’infiammazione che, come già ricordato, seppur finalizzata a riparare, talvolta danneggia”.
Recentemente, un gruppo sempre più folto di ricercatori ha individuato un meccanismo che collega direttamente l’infiammazione alle “malattie mentali”. Quello che ha incuriosito molti ricercatori è stato il dato, secondo cui, il 75% dei pazienti affetti da lupus eritematoso sistemico o LES (malattia cronica sistemica autoimmune che colpisce gli organi e le articolazioni) presentano anche sintomi psichiatrici. Per anni nessun ricercatore aveva avuto il sospetto di una correlazione tra questi dati, e questo in quanto si era sempre pensato che l’interferone alfa di tipo 1, la citochina che causa il LES, non fosse in grado di superare la barriera emato-encefalica, cosa del tutto smentita dagli esperimenti recenti fatti sui topi. Infatti, le analisi su animali con LES indotto hanno mostrato chiaramente che l’interferone in causa infiamma la microglia danneggiando le cellule nervose e le loro sinapsi.
Ancora più interesse si evidenzia da quanto si sta iniziando a conoscere sulla genesi di alcune malattie neurodegenerative, ed in particolar modo del morbo di Parkinson.
Infatti, le malattie neurodegenerative non sono state considerate, in genere, di origine autoimmune, ossia causate da un attacco immunitario contro i propri stessi neuroni. Eppure, da tempo, nel cervello dei parkinsoniani si era notata un’insolita attività immunitaria. Di recente si è visto che il rischio di contrarre il morbo di Parkinson aumenta in chi presenta alcune varianti di geni cruciali per l’immunità.
Presso la Columbia University di New York, il ricercatore David Sulzer, ha trovato una prova diretta che l’autoimmunità ha un ruolo nel morbo di Parkinson. Infatti, siamo a conoscenza che, nelle cellule nervose dei parkinsoniani si accumula una forma anomala di una proteina (alfa sinucleina). Ebbene, Sulzer ha dimostrato che i linfociti T dei soggetti con Parkinson, a differenza di quelli che non manifestano la malattia neurodegenerativa, attaccano la proteina anomala, innescando una reazione immunitaria nei confronti dei neuroni, distruggendoli.
Avere un approccio biologico all’autismo non significa, unicamente, sconfessare tutte le ipotesi dinamiche del passato per accettare l’idea del danno neurologico.
Avere un approccio biologico all’autismo non significa, solamente, non etichettarlo quale “psicosi”, bensì quale “cerebrolesione”.
Avere un approccio biologico all’autismo non significa, come puntualmente accade, definirlo un problema “organico”, per poi proporre, esclusivamente, protocolli terapeutici comportamentali.
Avere un approccio moderno all’autismo significa considerarlo un danno sistemico, ove la drammaticità è rappresentata dalle conseguenze della patologia sul processo di Organizzazione Neurologica ovvero, su ciò che, più di ogni altra cosa, ci rende individui.
Grazie 😔
Con la gioia di chi ha avuto un nonno con Parkinson, una mamma e la gemella con Alzheimer precoce e tre asperger…