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Dare senso ai sensi

Dalle neuroscienze moderne è emerso che, come per tutte le specie del creato, non siamo venuti al mondo per “conoscere” la realtà delle cose (anche perchè ogni specie vivente percepisce alcuni aspetti della realtà, a discapito di altri), ma per manipolarle, al fine della sopravvivenza.

In tale ottica, il processo di tentativo ed errore (attività sensori-motoria), o, per meglio dire, la RISPOSTA MOTORIA (movimento o inibizione del movimento), rappresenta il “cuore” della percezione. Infatti, tutto il “percepito” (esperienze sensori-motorie precedenti) fornisce al cervello quell’essenza capace di plasmare l’intera architettura neuronale (organizzazione neurologica). Sarà, come abbiamo in molti articoli sottolineato, questa architettura, e le conseguenti percezioni (frutto della casualità sensoriale e della pregressa organizzazione neurologica che prova a dare significato alla casualità sensoriale), a fornirci quello che per noi rappresenterà la “realtà” delle cose.

Il cervello contiene esperienze, sotto forma di rappresentazioni neuronali, provenienti da tutto l’arco di vita del suo possessore. In effetti, la sua organizzazione è determinata dai nostri successi e fallimenti (ontogenesi), ma anche di quelli dei nostri predecessori (filogenesi).

E’ la stroria che ha plasmato e plasma l’architettura neuronale (neurotipo) e, dunque attribuisce il SIGNIFICATO che diamo alle cose.

Già da diversi anni, grazie a studi di deprivazione sensori-motoria, le neuroscienze hanno dimostrato che l’INTERAZIONE del cervello con il proprio ambiente durante l’età evolutiva condiziona le COMPETENZE PERCETTIVE SPAZIALI, oltre alla coordinazione motoria (psicotipo).

Diverse coppie di gattini furono tenuti al buio, dalla nascita fino a qualche settimana di vita, epoca in cui venivano esposti alla luce, per sessioni di tre ore, mettendoli sopra una giostra girevole, a due alla volta. Entrambi i gattini venivano collegati alla stessa giostra ma, mentre uno poteva muoversi liberamente, l’altro era impossibilitato a farlo poichè era stato collocato in un contenitore appeso alla giostra, e dal quale poteva solo osservare attorno a sè. Così, quando il gattino libero di muoversi effettuava un movimento, la giostra faceva si che il gattino bloccato si muovesse automaticamente. Con tale esperimento si conferiva, attraverso diverse sessioni, al cervello dei due gattini la stessa scena visiva, oltre che gli stessi spostamenti nello spazio. Quello che differiva enormemente era il modo in cui si PROCURAVANO l’immagine visiva. Uno sperimentava con le zampe, percependo ciò che vedeva mentre modificava le proprie posture (integrazione vista-propriocezione), l’altro, lasciato nel cestino, aveva avuto la possibilità di vedere, ma non di fare. Le conseguenze di un apprendimento senza sperimentare attraverso tentativi ed errori, ovvero, un apprendimento basato sul vedere ma senza fare o agire, impediva di DARE UN SENSO AL PROPRIO SENSO (biocognitivismo).

Vedere senza fare (assenza di integrazione tra moduli cerebrali) comportava che, a differenza del gattino che si procurava con il movimento il cambiamento della scena visiva, il gattino si presentava goffo, incapace di muoversi con successo nel suo ambiente (quello che in clinica riabilitativa dell’età evolutiva viene definito, da tanti tecnici impreparati, con l’inutile e dannosa definizione di ritardo psico-motorio).

Quando ci troviamo di fronte bambini con problematiche cliniche secondarie ad anomalie del neurosviluppo, dobbiamo diventare bravi a saper leggere DOVE, in quel cervello,  il processo di Organizzazione Neurologica è stato alterato, non consentendo una discreta integrazione tra aree neuronali. Allo stesso tempo, non dobbiamo mai smarrire la convinzione che, quel cervello disorganizzato, abbia garantito a quel bambino la migliore soluzione possibile per la sua sopravvivenza, anche se questa, sovente, dovesse apparire straordinariamente innovativa, quale ad esempio utilizzare l’emissione di un suono per misurare le distanze nello spazio.

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