Sono trascorsi trent’ anni da quando Gerald M. Edelman (nato a New York nel 1929 ottenne il premio nobel in medicina nel 1972) espose la propria teoria sul “darwinismo neuronale” dando inizio alla rivoluzione delle neuroscienze, che ci ha consentito di comprendere meglio come funziona la mente ed in quale modo conosciamo il mondo.
Secondo la teoria di Edelman, le funzioni cerebrali superiori (linguaggio, cognizione, pensiero) rappresentano il risultato di una selezione che si esercita nel corso dello sviluppo (neurosviluppo), agendo sulle variazioni anatomiche e funzionali presenti in ogni individuo. Per Edelman ogni funzione nervosa è espressa in una mappa globale (neurostato), ove la percezione dipende dall’azione e conduce all’azione (psicostato). Le mappe globali, anche le più complesse (funzioni mentali), non possono non contenere elementi sia sensoriali che motori.
Non vi è un solo giorno, negli ultimi anni, che una pubblicazione scientifica internazionale non testimoni la veridicità della teoria di Edelman.
Ad esempio, qualche giorno fa, presso l’Università della Pensyjlvania, un gruppo di ricercatori ha dimostrato come, nei topi, il ritmo del respiro e quello dell’attività nella corteccia prelimbica prefrontale avesse un saldo legame (legame tra respiro ed emozioni), che si perdeva qualora venivano bloccati i recettori olfattivi.
Le idee di Edelman, inoltre, hanno contribuito a farci comprendere che il linguaggio umano si basa sul reclutamento di strutture cerebrali (mappe globali) che erano, e continuano ad essere, deputate anche ad altre funzioni cognitive. Oggi, per i neuroscienziati, il linguaggio non è più sinonimo di pensiero, anche se nell’uomo è generalmente una sua esternalizzazione.
In merito a tutto questo, aumenta sempre di più il numero di ricercatori che ritengono fondamentale per la sopravvivenza, e dunque da sottoporre a valutazione, non più l’intelligenza bensì i sistemi, quali il sistema visivo, uditivo e di locomozione, capaci di rendere complessi e sofisticati i comportamenti delle specie animali rispetto a quelle vegetali.
Anche se in maniera indipendente le une dalle altre, moltissime specie viventi hanno sviluppato un sistema visivo. Siccome nel corso dell’evoluzione il più adattivo è stato selezionato, questo significa che un qualsiasi sistema visivo, che sia laterale o frontale, a colori o con sfumature di grigio, unitario o frammentario, è risultato utile averlo.
Per alcuni animali (pipistrelli, delfini, cetacei), incapaci di sfruttare l’energia luminosa, la natura ha provveduto a fornire un differente sistema di navigazione nell’ambiente. Infatti, in mancanza di sistema visivo capace di fare diretto affidamento alla luce come fonte di informazioni, queste specie utilizzano l’ecolocalizzazione.
Anche il rilevare la compressione delle onde dell’aria tramite membrane specializzate, come le nostre, oppure per mezzo di connessioni con l’osso mandibolare, come nel caso dei serpenti (sistema uditivo) si è rivelato estremamente utile alla sopravvivenza (intelligenza o adattabilità).
Chiaramente, il tutto deve essere associato ad un sistema di locomozione (propriocezione) che consente all’animale di spostarsi.
Dalla prospettiva umana, l’intelligenza (ponderare lo spostamento del corpo o azioni non solo sul presente, ma soprattutto sul passato, sul futuro, sul possibile) non può non essere che un valore aggiunto dell’evoluzione, assolutamente non una prerogativa essenziale.
Quello che risulta essere di fondamentale importanza, nel contesto in cui viene pubblicato quest’articolo (Autismo fuori dagli schemi), è che l’intelligenza non rappresenta una sostanza o una cosa, bensì un processo o prodotto risultante dall’insieme delle competenze visive, uditive e di locomozione.
Nessun tecnico può prendersi cura di un bambino con disturbo dello spettro autistico senza conoscere questi concetti, nè tantomeno può sentirsi autorizzato a definire un soggetto “ritardato mentale” oppure con “deficit intellettivo” senza aver attentamente esaminato il sistema visivo, uditivo e locomotorio di quel giovane paziente.
Sono gli ultimi trent’anni di ricerca neuroscientifica a dirci questo.