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Quale psicologia ci aiuta a comprendere meglio l’autismo.

La sopravvivenza della nostra specie non è mai stata scontata. Anzi, le nostre probabilità di sopravvivenza sono state veramente minime.

Paradossalmente, durante il lungo sviluppo della nostra specie, il pericolo più grande sono stati gli altri uomini.

Infatti, la morte violenta per mano di un loro simile era spaventosamente comune fra i nostri antenati (sembra che i tassi di omicidio, nella lunga storia dell’umanità, siano passati da uno su quattro ad uno su centomila dei nostri giorni).

Oggi cerchiamo di ridurre al minimo i rischi per la vita e la sicurezza delle persone.  Abbiamo leggi che tutelano le nostre relazioni, i nostri sistemi di scambio (denaro), la nostra salute.

Pertanto, abbiamo fatto in fretta a dimenticare il fatto che i nostri comportamenti inconsapevoli (inconsci) si sono plasmati e si sono adattati sulla base di un mondo ancestrale molto più pericoloso, con elementi (caldo, freddo, siccità, fame, piante velenose, ecc.) che mettevano a rischio la nostra sopravvivenza. L’impulso fondamentale all’incolumità fisica, dunque, è un potente retaggio del nostro passato evolutivo ed esercita un influsso pervasivo sulla “scelta” dei nostri comportamenti consapevoli (consci).

Per cosa può esserci di aiuto, nel nostro tentativo di comprendere scientificamente l’autismo, questa considerazione fondata sui principi della PSICOLOGIA EVOLUTIVA (la cognizione non rappresenta un’altra mente bensì una utilissima aggiunta all’antico armamentario privo di consapevolezza già esistente)?

In effetti, le neuroscienze attuali ci hanno fatto comprendere che, tutti noi da bambini abbiamo impulsi e comportamenti di tipo evolutivo che agiranno in maniera automatica fino ai QUATTRO anni, periodo in cui inizieremo a sviluppare un controllo consapevole ed intenzionale sul nostro corpo (appare, ancora una volta per i lettori del blog, evidente che l’età di esordio della clinica è fondamentale per capire quale MENTE o parte del cervello sia primariamente coinvolta).

Dunque, sia nel corso dell’evoluzione umana, sia nel corso dello sviluppo ontogenetico (dalla nascita all’età adulta), i comportamenti prima sono automatici, poi diventano consapevoli.

E’ sul significato della parola “automatico” o “AUTOMATISMI” che bisogna fare una riflessione scientifica, per comprendere meglio ciò che ci sta a cuore: l’autismo.

Nella cornice della psicologia cognitiva (da cui prendono vita le terapie comportamentali attualmente prescritte ai bambini con disturbo dello spettro autistico), che dà priorità alla coscienza (ragione, consapevolezza), un comportamento inconsapevole può esistere solo se prima sia passato attraverso la consapevolezza o volontà.

Dunque, per la psicologia cognitivista, un comportamento può semplificarsi e divenire efficace (automatizzato), al punto da non richiedere più il controllo della consapevolezza (ad esempio quando guidiamo l’automobile), solo dopo aver accumulato una notevole esperienza.

Per il tecnico cognitivista, i comportamenti automatici possono prendere forma solo dopo uno sforzo consapevole, e solo con l’esperienza e la ripetizione del comportamento diventeranno automatici o inconsapevoli.

E’ questo il motivo per il quale, un “comportamento anomalo”, espresso da un bambino con un disturbo dello spettro autistico, non viene definito “comportamento adattivo” bensì “comportamento problema”da affrontare “a tavolino”(con rinforzi e punizioni).

Ad onor del vero, devo ricordare che, la psicologia cognitivista nasce in opposizione alla psicologia comportamentista, secondo la quale la scienza doveva astenersi dal tentativo di studiare il pensiero e l’esperienza conscia. Per i comportamentisti gli uomini sono esclusivamente il prodotto del loro ambiente. Quello che l’uomo vede, tocca, ascolta, e poco più, determina quello che fa. Appare evidente come, in opposizione a tale teoria, alcuni psicologi sentirono forte l’esigenza di sostenere che il nostro comportamento è sotto il controllo della consapevolezza e dell’intenzionalità e che scaturisce raramente, se non addirittura mai, da stimoli ambientali (psicologia cognitivista).

Dalla metà degli anni ottanta dello scorso secolo, grazie agli studi scientifici del dottor Michael Gazzaniga ed alle osservazioni di alcuni psicologi tra cui “effetto cocktail party”, le neuroscienze hanno compiuto, nell’argomento che stiamo trattando, una vera rivoluzione, che poco, se non niente, ha coinvolto i tecnici che si prendono cura dei bambini con AUTISMO.

Infatti, le neuroscienze hanno dimostrato che, ciò che guida i nostri comportamenti quotidiani prende origine da PROCESSI NEURONALI di cui non siamo consapevoli, anche se siamo bravi e rapidi a spiegarceli come volontari.

Tutti noi avvertiamo soggettivamente l’esperienza della volontà, ma questa sensazione non rappresenta una prova valida del fatto che essa stabilisce i nostri comportamenti.

Non ho dubbi, il lungo viaggio dell’umanità verso la comprensione della “mente inconscia” ci ha condotti in tante direzioni fantasiose, MA SBAGLIATE.

Per tale motivo, scrivere “sull’inconscio del bambino autistico” (come sto facendo) fa rabbrividire e richiede competenze scientifiche altissime.

Per chi volesse farlo c’è un’unica strada: studi di immaging cerebrale hanno rivelato che “i processi psicologici inconsci” sono della stessa natura (neuroni e sinapsi) di quelli consci.

La differenza sta nell’ORGANIZZAZIONE.

Tutto il corredo sintomatologico del bambino autistico è secondario ad una disorganizzazione neurologica dei circuiti talamo-corticali. Gli stessi circuiti neuronali che garantiscono i comportamenti adattivi nelle prime fasi dello sviluppo, del tutto automatici o inconsapevoli, privi di una precedente processualizzazione da parte del cognitivo.

Come vorrei che il mio maestro, Carl H. Delacato, potesse leggere queste cose, Lui che, fra i suoi contemporanei, fu in gran parte frainteso proprio perchè era così in anticipo sul suo tempo.

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