Da qualche anno lo studio del microbioma intestinale e dei suoi effetti sul benessere umano, oltre che sul normale funzionamento cerebrale, ha riscontrato un interesse sempre crescente, sia nella comunità scientifica che nell’opinione pubblica.
E’ ormai noto che i batteri risiedenti naturalmente nel nostro tratto gastro-intestinale regolano vari processi biologici, tra questi: la digestione, il metabolismo, la protezione contro agenti infettivi ed infiammatori, oltre che la regolazione del sistama immunitario.
Numerose ricerche scientifiche, infatti, hanno dimostrato che i batteri intestinali, influenzano il senso di benessere del neonato in quanto possono essere causa di coliche intestinali e di pianto, condizionano il peso (le persone obese hanno una minore diversità nella flora intestinale rispetto alle persone magre), regolano il rischio di malattie cardio-circolatorie (in merito alla dieta alimentare) e le capacità di difesa dell’organismo (funzione immunitaria).
Inoltre, di recente abbiamo conosciuto che, i batteri intestinali producono sostanze chimiche (ormoni e neurotrasmettitori) capaci di influenzare la nostra personalità (la personalità, per le neuroscienze moderne, emerge da un insieme di aree cerebrali, dalle fibre nervose che connettono tali aree e dal cocktail di molecole chimiche presenti in queste aree).
Probabilmente, in un futuro immediato, a tutte queste conoscenze aggiungeremo una ulteriore conquista (per alcuni versi veramente rivoluzionaria rispetto al nostro modo di considerare il cervello), emersa da una ricerca del novembre scorso, secondo la quale anche il cervello avrebbe un suo microbioma.
La scoperta sorprendente, come spesso capita, è stata del tutto accidentale.
Infatti, il gruppo di ricerca diretto dalla neuroanatomista Rosalinda Roberts, dell’Università dell’Alabama a Birmingham, stava cercando, attraverso una tecnica chiamata microscopia elettronica, le differenze nel cervello delle persone con e senza schizofrenia.
Nel corso della ricerca gli scienziati, con sorpresa, hanno costantemente rilevato batteri a forma di bastoncini.
Hanno così analizzato altri 34 cervelli umani post-mortem ed in tutti sono stati rilevati batteri senza alcun segno di infezione e/o infiammazione. I batteri, grazie allo studio del loro DNA, appartenevano tutti a gruppi che, di norma, popolano l’intestino umano.
Alcune aree cerebrali, quali l’ippocampo, la sub-stantia nigra, le cortecce prefrontali, sembrano essere preferite dai batteri.
Per provare ad escludere la possibilità che i dati fossero alterati dalla contaminazione dei campioni cerebrali i ricercatori hanno analizzato cervelli di topi preservati dopo morte. Allo stesso tempo, per escludere che la presenza dei batteri fosse secondaria al loro passaggio dall’intestino al cervello, sono stati studiati cervelli di topi modificati geneticamente per non avere germi intestinali.
In entrambi i gruppi vi erano batteri nei cervelli.
Eppure, da sempre, il cervello è stato considerato un ambiente sterile.
Tutt’ora siamo convinti che la barriera emato encefalica, agendo da filtro selettivo, impedisce la diffusione di sostanze biologiche, siano esse tossiche o infettive, dal sangue al cervello.
Eppure, se gli studi che in questo preciso momento si stanno svolgendo in numerose accademie mondiali (micrografie elettroniche su fettine di tessuto cerebrale circa 5 ore dopo morte) dovessero escludere la possibilità che i batteri rinvenuti nel cervello siano secondari alla contaminazione post-mortem, saremmo costretti ad accettare un cambio di paradigma e rivedere tutte le nostre certezze sul come viene regolata l’attività del sistema immunitario nel cervello.
Viviamo in un momento ove non ci sono più dubbi sul fatto che i disturbi del comportamento, siano essi legati all’apprendimento che alla relazione, sono secondari ad anomalie del neurosviluppo e, dunque, dell’organizzazione neurologica.
Tutte queste nuove conoscenze scientifiche ci invitano a rovesciare il nostro modello di approccio nei confronti delle problematiche cliniche del neurosviluppo atipico.
Nel 2019, la neuropediatria non può “consigliare” di attendere che il quadro clinico si manifesti nella sua totalità al fine di fare “correttamente” la diagnosi di disturbo dello spettro autistico.
Nel 2019 abbiamo gli strumenti clinici per monitorare, attraverso l’osservazione della motricità, le fasi del neurosviluppo.
Inoltre, la ricerca scientifica ci sta offrendo l’opportunità di comprendere il perchè, nei primi due/tre mesi di vita, un disturbo del sonno, la stipsi, le crisi di pianto immotivate o un eccesso di tranquillità, il reflusso gastro-esofageo frequente, dermatiti, possono rappresentare un campanello di allarme in quanto manifestazioni cliniche secondarie a processi morbosi capaci di alterare il processo di organizzazione neurologica.
Tutto questo andrebbe utilizzato sia in termini di prevenzione (prescrivendo indagini di laboratorio, esami strumentali e corrette stimolazioni sensori-motorie) che di formazione, qualora il neuropediatra saprebbe anche dare informazioni ai genitori di quel cucciolo d’uomo.
Il tutto al fine di contribuire a ridurre il gap tra le conoscenze, ben presenti nei lavori scientifici, e la pratica clinica (cura delle persone).