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Apprendere con il proprio corpo.

Egregio Professore Parisi,

come assiduo lettore del suo Blog, le invio il seguente articolo che ho letto di recente. Nella tematica trattata, ho notato una completa identità di pensiero con i suoi interventi in relazione all’intimo collegamento tra mente e corpo. Tale clamorosa e documentata conferma delle sue interessanti riflessioni sull’approccio alla mente alterata, convalida ancora di più l’attuale necessità di “uscire dagli schemi” se si desidera avvicinarsi alla verità.

Sergio Martone

 

Cerveau & Psycho N. 113. Settembre 2019.  Pag. 40

APPRENDERE CON IL PROPRIO CORPO

Restare seduti e ascoltare?

Secondo la psicologia cognitiva, c’è di meglio da fare: i nostri gesti possono aiutarci ad assimilare meglio i concetti.

Manuela Macedonia, ricercatrice all’Istituto Max-Planck di Neuroscienze Cognitive di Lipsia.

 

Da decenni, gli esperti in pedagogia tentano di migliorare l’insegnamento e l’apprendimento a scuola. Nei più piccoli, è stato già riconosciuto che il corpo nel suo insieme è un efficace strumento di apprendimento. Per esempio, alla scuola materna, alunni ed insegnanti costruiscono, plasmano, cantano, danzano o fanno delle scienze naturali con dell’acqua, dell’erba e del fango. Alla scuola elementare, tuttavia, l’insegnamento resta generalmente fondato su alcuni principi tradizionali: ascoltate, leggete, scrivete! Gli insegnanti integrano sempre meno le esperienze fisiche nel processo di insegnamento e di apprendimento man mano che il livello della classe avanza. Tuttavia, gli studi psicologici e neuro-scientifici provano che gli alunni apprendono più facilmente le lingue straniere e anche la matematica quando il loro corpo partecipa a questo apprendimento.

Per esempio, l’insegnamento della geometria mobilita il pensiero spaziale, cioè la capacità a comprendere le relazioni tra lo spazio e gli oggetti – una competenza che si rivela importante per la riuscita scolastica e professionale nei settori scientifici e tecnici. Durante gli ultimi decenni, la capacità di visualizzazione spaziale era considerata come più o meno innata, in modo che nell’insegnamento attuale, gli insegnanti suppongono generalmente che l’alunno possa già pensare bene nello spazio – o, se non è il caso, che non c’è gran che da cambiare. Ma questo è falso, come l’ha dimostrato una metanalisi dell’equipe di David Uttal, dell’Università Northwestern, nel 2013. «Il pensiero spaziale può essere migliorato con una formazione di breve durata», hanno concluso i ricercatori dopo avere passato al vaglio 217 studi in bambini e in adulti.

 

DELLE ROTAZIONI MENTALI MOLTO FISICHE

La psicologa Sharlene Newman ha dato ai bambini di 8 anni un gioco in cui dovevano costruire degli edifici con dei blocchi di legno il più velocemente possibile. Ebbene, dopo solamente due ore e mezza di formazione, i piccoli sono stati in grado di risolvere meglio i compiti di rotazione mentale. Nello stesso tempo, la loro attività cerebrale è cambiata: utilizzavano sempre più le regioni associate al ragionamento spaziale. Questo non era successo per il gruppo testimone che aveva giocato a Scarabeo.

Certo, spesso si manca di tempo in classe per provare dei nuovi metodi, o di conoscenze concrete sulla maniera di trasmettere il contenuto dell’apprendimento con il corpo. Forse gli insegnanti dei paesi occidentali hanno anche delle riserve più o meno coscienti. Dopo tutto, la pedagogia è radicata nella filosofia nella quale da secoli il corpo e la mente sono rigorosamente divisi. In Francia, René Descartes (1596 -1650) ha posto le basi di questa divisione nel suo Discorso sul metodo, fin dal 1637.  Il filosofo ha descritto il corpo come una macchina materiale che segue le leggi della natura. La mente, al contrario, è immateriale e dunque indipendente dai limiti fisici del corpo. John Locke (1632 -1704) e Emmanuel Kant (1724 -1804) hanno a loro volta perseguita la dicotomia cartesiana. I loro principi sono perdurati anche nel razionalismo del XX° secolo, sebbene qui la mente sia stata sostituita dalla «ragione» (la capacità umana di pensare).

In questa tradizione, nel 1974, il cognitivista e filosofo Jerry Alan Fodor ha descritto la mente umana come un insieme di operazioni aritmetiche del cervello, rappresentate come dei moduli, corrispondendo il cervello grosso modo ad un computer. Un punto di vista similare è stato adottato dal suo collega Zenon Pylyshyn nel 1984: egli considerava il linguaggio come un puro fenomeno della mente, un sistema ad unità simboliche scollegato della percezione sensoriale. Nessuno di questi scienziati del XX° secolo ha dato la possibilità al resto del corpo di mettere in pratica un’influenza significativa sui processi mentali come l’apprendimento di una lingua o anche di scienze matematiche. Sebbene essi abbiano formulato in seguito le loro posizioni in maniera più sfumata, fino a rivedere le loro posizioni, le loro teorie iniziali sono restate nelle menti e continuano a influenzare l’educazione scolastica.

 

SENZA CORPO, NIENTE PENSIERO!

Nel corso degli ultimi venti anni una nuova prospettiva si è sviluppata: la teoria dell’incarnazione. Secondo tale teoria, la mente non è una costruzione astratta, un’entità che lavora con dei simboli separati dal corpo. La cognizione incarnata (in inglese, embodied cognition) considera i processi cognitivi come profondamente radicati nelle interazioni del corpo con l’ambiente, secondo le proposte della psicologa Margaret Wilson, dell’Università della California, in una rivista molto citata.

In un certo numero di discipline di ricerca – ivi comprese la filosofia, la linguistica e la pedagogia – la prospettiva dell’incarnazione ha iniziato un cambiamento di scuola di pensiero, tanto più che essa è empiricamente sostenuta dalla ricerca in neuroscienze. L’equipe di Friedemann Pulvermuller, dell’Università Libera di Berlino, ha posto dei volontari in una IRM e ha fatto leggere loro dei verbi come kick («dare una pedata») o take («prendere»). Sebbene ai partecipanti non sia stata data la possibilità di muoversi, delle zone della loro corteccia motoria e premotoria sono diventate attive. Come l’hanno segnalato i ricercatori nel 2004, esse si sovrapponevano a quelle che controllano realmente i movimenti delle gambe o delle mani. Parimenti, la lettura di termini come «gelsomino» o «cannella» provoca un’attività nelle regioni olfattive del cervello. Se le parole fossero solamente dei simboli della mente senza legame con il corpo, come lo pretendevano Fodor, Pylyshyn e anche il linguista Noam Chomsky, un compito mentale come la lettura non dovrebbe sollecitare delle zone sensorimotorie.

Se si osserva come i bambini imparano a parlare, diventa anche chiara la ragione di questa attività cerebrale. Anche i più piccoli apprendono la loro lingua materna non solo ascoltando e ripetendo, ma anche prendendo immediatamente contatto con gli oggetti osservati: li toccano, li lasciano cadere, li sentono o li mettono in bocca.

Così, i neuroni delle aree visive e aptiche (tattili) del cervello si connettono progressivamente per formare delle reti che rappresentano la forma, il colore e la struttura degli oggetti «interpretati». La rappresentazione mentale di una mela, per esempio, contiene tutte le esperienze che una persona ha acquisito manipolando il frutto. Queste sono collegate, all’interno di una grande rete, al concetto di mela. Anche se il bambino pensa ad una mela che potrebbe toccare o mangiare in un futuro prossimo, egli attiva i programmi sensoriali e motori che sono stati implicati nella prensione, il sollevamento, l’odorato, il gusto e la masticazione dei frutti…

 

DELLE PAROLE NELLE BRACCIA E NELLE GAMBE

Apprendiamo la nostra lingua materna in maniera sensori-motoria, ecco perché le parole nel cervello non possono essere rappresentate solamente come dei simboli, ma devono anche esserlo come delle reti sensorimotorie che riflettono tutte le esperienze accumulate in passato. Che si tratti di ricordarsi di un’immagine, di ascoltare un pezzo di musica o di filosofare sul termine di «felicità», una moltitudine di regioni del cervello è sempre attiva, ivi comprese le zone sensoriali e motorie. In altri termini: la mente è rappresentata in modo sensori-motoria sotto molteplici sfaccettature.

Molto prima che la cognizione incarnata fosse su tutte le labbra, si è già tentato di implicare il corpo nell’apprendimento delle lingue straniere. Negli anni 1970, lo psicologo James Asher ha messo a punto il metodo Total physical response (“Risposta fisica integrale”) per i bambini della materna e della primaria. L’insegnante dà degli ordini in una lingua straniera, come: «Open the door!», (in inglese: «Aprite la porta!»). I bambini ascoltano, comprendono ed eseguono ciò che è necessario. Nella risposta fisica integrale, gli alunni non hanno bisogno di tradurre mentalmente la consegna, ma solamente di agire. Essi provano allora una minore pressione. L’apprendimento di conoscenze rudimentali di una lingua straniera per mezzo di ordini motori punta allora a simulare l’acquisizione di una prima lingua. In effetti, i bambini piccoli sono ugualmente incoraggiati, anche dalle persone che si occupano di essi a intraprendere certe azioni. La risposta fisica integrale utilizza principalmente dei verbi di ordine. Ma siccome Asher non aveva previsto delle azioni di comunicazione che non potevano essere messe in forma di comando, le critiche hanno sottolineato questa carenza e hanno obiettato che la risposta fisica integrale era adatta solamente alle prime fasi dell’acquisizione di una lingua straniera. Per questo fatto, il metodo non è stato accettato nella pratica, particolarmente perché gli studi empirici su questo argomento non si sono concretizzati.

Ma c’è un’altra maniera di coinvolgere il corpo nell’apprendimento del linguaggio, al di là degli ordini: mediante dei gesti. Sono trascorsi già più di due secoli, l’abate di Radonvilliers, professore e poi consigliere di Luigi XVI, consigliava di utilizzare i gesti nei corsi di latino. Che cosa distingue un gesto da un’azione? Queste ultime consistono in un porre in movimento il corpo rivolto verso un scopo. Per esempio, un spostamento da un luogo a un altro può essere qualificato come «marcia». Tuttavia, due dita che imitano le gambe che avanzano non hanno uno scopo in sé: non agiscono, ma rappresentano piuttosto un concetto, come «camminare, correre, bighellonare»; esse formano un gesto.

 

RISPARMIATEVI DELLE SPIEGAZIONI VERBALI

I gesti esprimono i concetti con precisione e rendono spesso le spiegazioni verbali inutili. Due mani che aprono un libro immaginario possono significare «libro» o «lettura», ma possono essere anche una metafora di un concetto astratto come «teoria». Gli emblemi, come il pollice verso l’alto per esprimere l’approvazione, formano una categoria distinta di gesti. Tuttavia, essi sono validi, talvolta, solamente in seno ad un gruppo di locutori o di una cultura particolare. Per esempio, nelle società anglosassoni, il consenso è segnalato collegando l’indice ed il pollice in cerchio. In certi paesi del sud dell’Europa, tuttavia, ciò è considerato come offensivo, e nel mondo arabo, il gesto è utilizzato per giurare. Nel mondo ovunque, le persone utilizzano anche dei gesti di puntamento per dei luoghi (qui, là…) o per degli oggetti nell’ambiente.

Oltre alla loro funzione esplicativa, i gesti presentano un altro vantaggio al momento dell’apprendimento di una lingua straniera: vi aiutano a memorizzare meglio il vocabolario. La prima scienziata ad avere diretto uno studio empirico sull’influenza dei gesti sulla memoria delle parole nel 1995, è stata Linda Quinn Allen, oggi in attività all’Università di Stato dell’Iowa. Ha insegnato delle espressioni francesi a 112 parlanti anglofoni nativi. Mentre un terzo del gruppo apprendeva il vocabolario leggendolo, un altro l’ha memorizzato leggendo le parole e facendo dei gesti allo stesso tempo. Il terzo gruppo non ha visto i gesti che in fase di test, e non in fase di apprendimento. Risultato: quelli che avevano appreso dalla gestuale hanno ottenuto i migliori punteggi di memorizzazione.

Durante la mia tesi, ho accordato agli studenti di apprendere il vocabolario di una lingua che avevo inventato. Una metà delle parole non doveva essere memorizzata che per l’ascolto e la lettura, l’altra metà era spiegata da gesti che le persone analizzate imitavano. Queste parole apprese dai gesti non solo sono rimaste nella memoria molto meglio durante un breve periodo, ma anche 14 mesi dopo la loro prima memorizzazione!

 

LE VIRTÙ DEL MIMO PER L’APPRENDIMENTO DELLE LINGUE

Ho ottenuto dei risultati similari nel 2011 in uno studio condotto con Thomas Knòsche all’Istituto Max-Planck di Neuroscienze Cognitive e Neurologiche di Lipsia: questa volta, i soggetti hanno appreso delle frasi astratte per un totale di 92 parole. Anche qui, le parole arricchite da un gesto sono state meglio trattenute a breve e a lungo termine. Parecchi gruppi di ricerca lavorano attualmente sull’effetto del gesto nell’acquisizione di una seconda lingua. In diverse esperienze, tre fattori si sono rivelati essenziali per ottenere dei risultati di apprendimento ottimali. All’inizio, i gesti devono essere significanti. In uno studio che ho realizzato con Angela Friederici e Karsten Mùller, ugualmente all’Istituto Max-Planck di Lipsia, le persone testate memorizzavano più facilmente delle parole quando i gesti che li accompagnavano evocavano il loro senso in un modo o in un altro. Fare dei movimenti più ampi, come distendere le braccia o saltare sul posto, non aveva effetto facilitatore.

Secondariamente, il guadagno di apprendimento è più netto se gli allievi non si accontentano di vedere i gesti, ma li eseguono da loro stessi. All’Università della Sarre, in Germania, Johannes Engelkamp e i suoi colleghi hanno descritto per la prima volta questo aspetto nel 1994, e l’hanno chiamato effetto di autoesecuzione. Nel nostro studio condotto con Kirsten Bergmann, dell’Università di Bielefeld, abbiamo fatto apprendere agli studenti 45 parole di una lingua artificiale: abbiamo presentato loro 15 parole sotto una forma talvolta scritta e audio-fonica, e altre 15 per le quali un avatar umano su uno schermo eseguiva inoltre un gesto evocatore. Infine, con le restanti 15 parole, le persone testate sono state anche invitate a imitare il gesto dell’avatar.

 

UNA ALLEATA: LA MEMORIA PROCEDURALE

I risultati hanno mostrato che è nel terzo caso (leggere, sentire, vedere un gesto e riprodurlo) che i partecipanti memorizzavano meglio le parole. In questo senso, le canzoni inglesi possono anche essere accompagnate nelle scuole secondarie da gesti appropriati e il vocabolario guadagnerebbe a essere appreso con l’aiuto del corpo.

Il terzo fattore di successo in numerosi esperimenti era la ripetizione sulla durata: una sequenza di formazione su parecchie ore permette di ottenere dei risultati spettacolari, ma un’ora non basta. Il corpo aiuta la mente, ma questo prende un poco di tempo!

Come spiegare l’effetto del movimento sulla memoria per il linguaggio? Nel 2001, Engelkamp aveva già espressa l’ipotesi che le azioni motorie migliorano l’immagazzinamento del vocabolario perché, oltre alla memoria dichiarativa (che immagazzina le parole, i fatti, gli elenchi o altro) esse integrano all’apprendimento la memoria procedurale (che immagazzina i processi motori). Con Karsten Muller, io ho approfondito questo interrogativo in uno studio pubblicato nel 2016.  Nel tomografo a risonanza magnetica, lasciavamo le persone testate sentire e leggere delle parole che avevano già appreso con i gesti. In effetti, abbiamo osservato che numerose strutture della memoria procedurale sono diventate attive, particolarmente le zone della corteccia motoria, il cervelletto e i nuclei grigi centrali.

Ma ciò che si applica alle lingue straniere può essere trasferito alle materie come la matematica? Secondo il ricercatore Dor Abrahamson, dell’Università della California di Berkeley, sì, perché noi non sviluppiamo i numeri in maniera astratta, staccati dal nostro corpo e dal mondo esterno. A questo titolo, gli studi di neuro-immagini non hanno mai mostrato la minima indicazione che il cervello funziona solamente con i simboli quando noi calcoliamo. Quando una persona ha gli occhi chiusi e conta le pecore, le aree visive del suo cervello reagiscono come se le vedesse realmente.

Come il linguaggio, il pensiero matematico è ancorato nel corpo: i bambini utilizzano spesso le loro dita quando contano per farlo meglio. Ed essi comprendono molto meglio le operazioni di matematica di base (addizione, sottrazione, divisione e moltiplicazione) quando si permette loro di combinare o di contrassegnare degli oggetti reali del loro ambiente. Anche le persone che non sanno né leggere né scrivere i numeri sono capaci di effettuare delle operazioni di matematica in questa maniera.

 

I GESTI CHE FANNO INTRODURRE LA MATEMATICA NELLA POPPATA

Circa una ventina di anni fa, i ricercatori in scienze cognitive hanno cominciato a studiare sistematicamente l’influenza dei gesti sulla comprensione dei concetti di matematica. Un’equipe diretta da Susan Goldin-Meadow, dell’Università di Chicago, ha osservato i gesti spontanei che gli insegnanti utilizzano per spiegare il principio delle equazioni in matematica. In un studio, essi hanno chiesto agli educatori di sottolineare le loro spiegazioni con dei gesti appropriati oppure inappropriati secondo le situazioni sperimentali. Là ancora, gli alunni hanno trovato più spesso la soluzione in condizione di gestualità appropriata.

In uno studio pubblicato nel 2016, Susan Cook e i suoi colleghi dell’Università dell’Iowa hanno chiesto a 65 bambini di circa 9 anni di risolvere dei calcoli come 3 + 8 + 5 = 3 +13.  Tuttavia, al posto di un professore umano, c’era un avatar che spiegava il principio, sia fermo in piedi, sia corredando le sue spiegazioni con una gestualità più o meno evocatrice dei numeri e delle operazioni realizzate. Dopo la fase di insegnamento, i bambini hanno realizzato le operazioni e poi risposto a delle domande concettuali: i risultati hanno mostrato che gli alunni il cui professore virtuale realizzava una gestualità appropriata erano nettamente migliori di quelli che avevano ascoltato un avatar statico.

I pedagogisti americani Mitchell Nathan e Candace Walkington, dell’Università Metodista del Sud, suggeriscono di utilizzare dei gesti specifici per rendere più comprensibili i concetti di scienza, di tecnologia, di matematica e di ingegneria. In uno dei loro studi, hanno chiesto a 120 alunni di fornire certe prove matematiche a dei problemi. In precedenza, l’equipe aveva chiesto a una parte del gruppo di effettuare dei movimenti legati al compito che stavano per realizzare: per esempio, essi erano invitati a toccare dei punti di colore su un quadro bianco posizionati in modo simmetrico, in modo che le persone testate realizzavano con il loro tronco e il loro braccio delle forme di triangoli. In una condizione di testimone, i partecipanti toccavano con il dito degli altri punti segnati sul quadro bianco, cosa che faceva eseguire loro dei movimenti che non avevano niente da vedere con l’idea di base del triangolo. Risultato: gli alunni il cui corpo aveva realizzato delle figure geometriche avevano poi una migliore comprensione del problema matematico.

Come per l’apprendimento delle lingue anche per la matematica, tutti gli esperimenti tendono a provare dunque che il corpo e la mente sono le due facce di una stessa medaglia che si potrebbe chiamare «la cognizione». Il pensiero non sarebbe dunque un fenomeno astratto, ma piuttosto basato sulla percezione sensoriale e la motricità. Dunque, Cartesio e i suoi successori avrebbero avuto semplicemente torto. Oggi, una nuova strada si apre davanti a noi: l’utilizzazione del corpo nell’insegnamento per rinnovare e dare delle ali al nostro pensiero.

 

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