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IO, NOI, ontogenesi della relazione umana (tipica ed atipica) 4° giorno del nuovo inizio

Continuazione di ieri

 

 

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Negli articoli precedenti (tutto il mese trascorso insieme) ho più volte scritto che nell’attività di gruppo degli scimpanzè gli individui non lavorano insieme come un NOI, nel senso che hanno ruoli individuali anche all’interno di un obiettivo congiunto (esempio: catturare una preda).

Per questo motivo, molti studiosi di scienze sociali hanno parlato di “comportamento di gruppo nel modo-io”.

Circa cinque mesi orsono sono stato invitato (dai genitori) a fornire un mio parere diagnostico su un cucciolo d’uomo di 20 mesi di nome Lorenzo.

Quando sono entrati nel mio ambulatorio clinico, con Lorenzo c’era la mamma, il papà, una giovane zia e Marco il fratellino gemello.

Quale fortuna per me poter osservare contemporaneamente due fratelli di 20 mesi con differente neurosviluppo.

Mentre i genitori mi raccontavano la storia di Lorenzo, la giovane zia giocava sul pavimento con i cubi ad incastro insieme ai due bellissimi nipotini.

La mamma era molto preoccupata in quanto Lorenzo, a differenza di Marco, non aveva mai pronunciato una parola.

Inoltre, mentre fino ai 12 mesi di vita non aveva notato alcuna differenza tra i due fratellini, in seguito ad una “brutta otite”, trattata per quindici giorni con differenti antibiotici, Lorenzo era “cambiato”.

Sovente piagnucolava, aveva smesso di sorridere, era infastidito dal farsi lavare (specie il volto), non manifestava interesse quando qualcuno, in casa, intraprendeva un’attività, talvolta non si girava e, soprattutto, aveva cambiato il modo di “guardarla” (la mamma non riusciva a chiarire meglio quest’ultimo aspetto, mentre il papà dava scarsa importanza a tutti questi cambiamenti).

Nel frattempo, mentre ascoltavo, facevo molta difficoltà a distinguere i due gemelli, sia per la somiglianza fisica che per il comportamento.

Come per gli scimpanzè adulti, anche per i cuccioli d’uomo di 20 mesi è difficile una vera collaborazione.

Infatti, i gemellini e l’adulto (la zia) avevano formato un obiettivo condiviso (cercavano di impilare insieme i cubi e, successivamente, di riporre i blocchi nella scatola), ed avevano strutturato le loro attenzioni in maniera congiunta (ciascuno di loro sapeva che l’altro era concentrato su cose rilevanti per il loro obiettivo congiunto, ovvero riporre i giochi), ma era la zia a sostenere ed a strutturare in vari modi quanto stavano facendo insieme.

Immediatamente chiesi alla mamma come Marco collaborava con un suo pari età (la cuginetta di 19 mesi).

La risposta fu in linea con la mia ricerca: quando si trattava di collaborare con un pari età, a prescindere dal neurosviluppo (Marco o Lorenzo), i cuccioli d’uomo non si manifestano competenti (fino ai 30 mesi).

Anche per Marco, come per Lorenzo e come per tutti i loro coetanei (vale anche per gli scimpanzè adulti), una vera collaborazione è molto difficile.

In quell’epoca della loro vita, i cuccioli d’uomo possono collaborare ragionevolmente bene con l’adulto, ma non sono altrettanto abili con un loro pari.

La mia difficoltà nel distinguere Lorenzo da Marco era secondaria al fatto che, a 20 mesi, le loro interazioni, a prescindere dal livello do organizzazione neurologica, rappresentano “un gioco in parallelo”.

D’altronde, la psicologia dello sviluppo ci dice che, le azioni coordinate dei bambini di 12-18 mesi sono più fortuite che cooperative.

Solamente dopo i 30 mesi i cuccioli d’uomo sembrano cooperare più attivamente verso un obiettivo condiviso.

La comprensione che i bambini hanno del ruolo del partner, per la psicologia dello sviluppo, richiede almeno tre anni di vita.

E’ questo il motivo per cui i bambini in età prescolare non sembrano arrivare al dunque in giochi competitivi, cioè in quei giochi che hanno un senso solo se sono giocati nell’ambito di regole cooperative e ciascun partner gioca il gioco in modo razionale cercando di vincere (un bambino di 5 anni, a differenza del piccolo, non si diverte a giocare a calcio con il fratellino di tre anni che fa goal con le mani).

Presumibilmente, tra qualche mese Lorenzo mostrerà chiari segni di deficit in quel processo psicologico radicalmente nuovo (nella filogenesi) e che fece la sua comparsa con il genere Homo: intenzionalità condivisa basata su un’agentività congiunta (NOI).

Abbiamo abbondantemente visto che un NOI comprende due individui che hanno un obiettivo congiunto, strutturato da un’attenzione congiunta, ciascuno dei quali ha, contemporaneamente, il proprio ruolo e la propria prospettiva.

L’ho anche definita una struttura ove, simultaneamente, trovano espressione l’individualità e la condivisione.

Questo significa che l’agente congiunto (NOI) richiede necessariamente che ciascun partner deve conservare, nello stesso istante, il proprio ruolo e la propria prospettiva.

Lorenzo, a differenza di Marco, stava iniziando a mostrare i segni clinici di un disordine dell’espressione della SUA PROSPETTIVA, ovvero della capacità che progressivamente sviluppiamo di misurare il mondo.

La mia pregressa esperienza clinica con pazienti adulti è stata fondamentale. Trent’anni fà, una delle  prime cose che mi insegnarono i miei pazienti, che vivevano da anni in una struttura psichiatrica, fu la loro difficoltà nel calcolare la distanza o spazio, anche in termini sociali (difficile per loro attuare il distanziamento sociale), mentre non mostravano lacune nella comprensione emotiva della distanza (soffrivano per il distaccamento dai familiari).

E’ stata la mia storia a farmi concentrare sull’anatomia della formazione reticolare, del nucleo reticolare del talamo, sul II, III, VI strato delle colonne delle cortecce cerebrali, specie delle aree sensori-motorie ed associative primarie e secondarie.

Questo non per negare che nell’uomo la maggior parte della superficie cerebrale è costituita dalla corteccia associativa e che, tra le funzioni della corteccia associativa vanno annoverate operazioni complesse quali l’elaborazione delle informazioni sensoriali di ordine superiore, la pianificazione motoria, l’elaborazione e la produzione del linguaggio, l’orientamento visuo-spaziale, la determinazione di un comportamento “socialmente” adeguato ed il pensiero astratto.

Ma, soprattutto, per non dimenticare che il talamo, i sistemi attivatori del tronco encefalico, così come i gangli della base, il cervelletto, il sistema limbico, sono cruciali nel processo di neurosviluppo che determinerà il comportamento.

Ciò nonostante, c’è stato e c’è uno sbilanciamento (specie nei protocolli terapeutici proposti) tra le attenzioni rivolte ai “circuiti cerebrali di ordine superiore” ed i “circuiti cerebrali evolutivamente più antichi”, e questo non si è rivelato molto produttivo in termini di conquiste di conoscenza.

Tale sbilanciamento non appare coerente con il fine che le neuroscienze si sono prefisse: quello di capire l’attività mentale, cioè i meccanismi attraverso i quali riusciamo ad avere percezioni, ci muoviamo, ricordiamo.

Se appare sempre più evidente sostenere che ogni comportamento, anche il più complesso, rappresenta il prodotto di una ben precisa attività neuronale e che, conseguenzialmente, ogni alterazione di comportamento, anche la più sottile, è dovuta ad una deviazione dell’attività dei neuroni che ad essa presiedono, è pur vero che, per intravedere proposte terapeutiche più efficaci, negli autismi, bisogna provare a circoscrivere i circuiti neuronali la cui attività è stata primariamente deviata, per non confondere i veri sintomi dai segni compensativi.

Pur consapevole, nel ringraziarvi per aver letto quanto da me pubblicato in questi 36 giorni trascorsi “insieme” e nel salutarvi con affetto (distanza non equivale a distacco), che il futuro della neurologia e della psichiatria, come quello della neuropsichiatria infantile, è intimamente connesso con quello delle neuroscienze molecolari (argomento nemmeno sfiorato in questo mese; per questo ho, con onestà, ripetutamente scritto che non c’era nessuna “verità” in questi articoli).

GRAZIE!

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