Tutti sanno che la diagnosi di “autismo infantile” fu fatta, per la prima volta, da Leo Kanner nel 1943. Molti conoscono che il termine autismo era stato già introdotto in medicina nel 1911 da Bleuler per sottolineare la chiusura relazionale dei soggetti con schizofrenia. Pochi sono coloro che hanno appreso che, nel 1973, Carl H. Delacato per la prima volta aveva attribuito l’autismo ad un disordine dello sviluppo del sistema nervoso (Problemi di Organizzazione Neurologica), spiegando che alla base dei disturbi relazionali e comunicativi, così come dei comportamenti ripetitivi (stereotipie) di questi bambini, vi fosse un disordine del modo di dare un “significato” agli stimoli sensoriali (percezione). Delacato si soffermò, in chiave biologica, sia sulla chiusura relazionale, sia sui comportamenti ripetitivi (sensorismi), anche se la sua attenzione sembrò particolarmente rivolta alle difficoltà comunicative di questi bambini: “gli stranieri dell’ultima frontiera”. Il nucleo centrale di tutti questi disordini (relazione, comportamenti, comunicazione), per Delacato, era da ricercarsi in un’anomala selezione degli stimoli sensoriali da parte del cervello del bambino autistico. L’iper o l’ipo sensorialità rappresentavano la causa dell’atipico “significato” che il bambino attribuiva al mondo circostante. Quando le circostanze della vita mi fecero incontrare Carl H. Delacato (1992), il mio interesse per lo studio della percezione (sono un neurofisiopatologo) non poteva lasciarmi indifferente rispetto ad una tale ipotesi. Nel corso dei miei studi avevo appreso che il nostro cervello percepisce il mondo e guida il corpo. Ero capace di spiegare, a me stesso e ai miei pazienti, che quando vediamo un oggetto o sentiamo un suono, accade in quanto gli stimoli sensoriali visivi ed uditivi (fotoni e vibrazioni d’aria) sono stati trasdotti in potenziali d’azione che raggiungono le cortecce sensoriali per poter poi generare il “significato” (percezioni). Allo stesso tempo, conoscevo molto bene che per dar vita ad un movimento, i neuroni piramidali devono “informare” i motoneuroni spinali che, a loro volta, fanno contrarre il muscolo al quale sono collegati. C’era un altro particolare che un neurofisiologo conosce bene e che non poteva lasciami indifferente: quando la via d’uscita del nostro cervello (motoria) subisce un danno ne scaturisce un disordine della selezione. I pazienti con tale problematica manifestano un iper-tono muscolare oppure un ipo-tono muscolare. Con queste conoscenze, come ho ricordato sopra, non potevo restare indifferente rispetto alle ipotesi fatte da Delacato . Da quel momento non avevo scelta, dovevo studiare meglio come percepiamo, ed applicare queste conoscenze alla clinica dell’autismo. In quegli anni (inizio anni 90 del secolo scorso), la maggioranza dei miei colleghi concordavano sul fatto che la funzione fondamentale del cervello è ricevere i segnali provenienti dall’ambiente (sensazioni) e assegnare a questi segnali il giusto significato (percezione) per favorire l’azione più adattiva. Appare evidente che una tale visione ci obbliga a chiarire un’operazione non secondaria da parte dei nostri cervelli, quella di capire come funziona il processore centrale che riceve le informazioni sensoriali dall’ambiente e consente di effettuare correttamente l’azione. Ma qual è la natura di questo processore centrale? Nei decenni precedenti si liquidava la faccenda parlando di “scatola nera”. Con i primi studi di neurofisiologia si iniziò a parlare di “homuncolus”. I cognitivisti iniziarono a parlare di “interprete” prima, e di lobi frontali e funzioni esecutive poi. In quegli anni (inizio anni novanta), un gruppo londinese parlò di modulo innato o Teoria della mente, condizionando quanto si è fatto con i bambini autistici nei decenni successivi (fino ad oggi). Eppure, gli studi sulla percezione sono andati avanti per cui le nostre conoscenze, negli ultimi anni, sono cresciute. Queste conoscenze non possiamo ignorarle quando parliamo di bambini autistici che, per definizione, percepiscono in maniera atipica. La prima cosa che abbiamo appreso è che non c’è omuncolo, né interprete, né modulo della mente, nei nostri cervelli. La seconda cosa che i neurofisiologi hanno compreso è che non progrediamo nelle conoscenze “sul come percepiamo” se non cambiamo la prospettiva “sul come vedere le cose”. Infatti, non possiamo continuare a studiare la percezione, e nemmeno i pazienti con disordine percettivo quali gli autistici, secondo un modello basato su una catena seriale che va dalla sensazione alla percezione e da questa alla decisione ed all’azione. Il cervello non ha un’organizzazione seriale. Non effettua questi passaggi in tappe successive. Il cervello ha un’organizzazione in parallelo. Questo significa che, ogni azione intrapresa da un corpo implica che le aree motorie cerebrali informano il resto della corteccia cerebrale dell’azione intrapresa. Quando intraprendiamo un’azione, oltre al comando motorio diretta dal cervello ai muscoli, c’è una “notificazione” di ritorno che informa il cervello che il muscolo si è mosso (propriocezione). Le cortecce sensoriali, da cui ha preso origine l’atto percettivo, ricevono l’informazione del movimento avvenuto (propriocezione). Per questo possono fare un paragone e valutare le differenze. E’ questa specifica organizzazione neuronale che ci garantisce di percepire che la nostra azione è stata causa del cambiamento. Le neuroscienze hanno abbondantemente chiarito il concetto che l a percezione non è un’elaborazione di segnali sensoriali fatta da moduli innati o da processi “educativi a tavolino”. La percezione, per le neuroscienze, viene definita dal risultato delle nostre azioni. E’ per questo che i bambini autistici, specie nei primi anni di vita, devono essere sottoposti ad intensi programmi neuroabilitativi sensori-motori. Il dottor Delacato lo aveva intuito. I neurofisiologi lo hanno dimostrato. I tecnici preparati dovrebbero consigliarlo..