E’ nel cuore, e non nel cervello, che Aristotele aveva posto l’origine della mente, anche se, ad onor del vero, un secolo prima Ippocrate aveva sostenuto che era il cervello l’organo pensante.
Nei circa duemila e cinquecento anni trascorsi, mentre del cuore si conoscono struttura e funzioni da moltissimo tempo, del cervello abbiamo iniziato a comprendere la struttura, la funzione e, soprattutto, l’organizzazione solo negli ultimi decenni.
In effetti, solo agli inizi del secolo scorso (1906), con la scoperta del neurone da parte di Santiago Ramòn y Cajal, le neuroscienze diedero inizio agli studi sull’organizzazione cellulare del cervello. Infatti, fino ad allora dominava la Teoria reticolare secondo la quale il tessuto nervoso formava un “continuum” senza confini netti.
Con la scoperta della cellula nervosa o neurone venne formulata la Teoria neuronale (i neuroni sono in contiguità e non in continuità) destinata a diventare il fondamento delle neuroscienze moderne.
Nell’arco di alcuni decenni, dalla scoperta del neurone, si è venuto a conoscere la sinapsi (permette che i neuroni comunichino tra loro elettricamente e chimicamente, consentendo il propagarsi dell’elettricità) e che ciò che conta non è il neurone in sé ma la sua capacità di ricevere e di dare, ovvero di “connettersi” per mezzo dei prolungamenti (dendriti, assone) che spuntano dal suo soma.
Si conoscerà anche, che esistono neuroni con assone corto, per connettersi a neuroni vicini, e neuroni con assone lungo, per comunicare con neuroni lontani, che garantiscono i nostri apprendimenti (dai più elementari, quali le risposte riflesse, ai processi decisionali o funzioni esecutive).
Si intuisce che tutta questa importante mole di informazioni scientifiche sulla nostra Natura, non poteva non spostare gli equilibri sul nostro modo di “conoscerci” facendoci accantonare il pensiero di Aristotele a vantaggio di quello di Ippocrate.
Si comprende perfettamente il motivo per cui, per molti neuroscienziati contemporanei (Stanislas Dehaene, 2022, Vedere la mente), “noi siamo il nostro cervello”.
Pertanto, non ci meraviglia leggere che la mente di ognuno di noi, la personalità, i propri ricordi, sono tutti racchiusi in poco meno di due chili di tessuto cerebrale. Allo stesso tempo, non ci stupisce sentire che, tutto ciò che “Io” provo, che “Io” sono, si riduce alla scarica di qualche decina di miliardi di neuroni.
Eppure, parallelamente a questo filone “cognitivista”, nell’ambito delle moderne neuroscienze, si è sviluppato un altro gruppo di ricerche che ha “allargato” il campo di studio introducendo, oltre al cervello, un altro protagonista: l’esperienza, nel corso della vita, fatta dal corpo.
Questi neuroscienziati, tra cui ricordo David Eagleman (L’intelligenza dinamica 2021), hanno posto le loro attenzioni principalmente sul come migliaia di ore di esercizio plasmano fisicamente i nostri cervelli.
Particolarmente significativo, a tal proposito, è un aneddoto sul violinista Itzhak Perlman al quale, al termine di un suo concerto, da un ammiratore gli fu detto: “ darei la vita per suonare in questo modo”. Al che il musicista rispose: “è quello che ho fatto”.
Per questi ricercatori, il cervello rispecchia non semplicemente il mondo esterno ma più nello specifico il mondo esterno manipolato da quel corpo.
In effetti, ad oggi, nessuno è disposto a mettere in discussione che la nostra organizzazione cerebrale e, dunque, la nostra mente rispecchia quello che il nostro “corpo” fa (ricordo che il cervello è una parte del corpo).
Ecco il motivo per cui, più che il nostro cervello, noi siamo quello che i nostri corpi fanno.
Ovviamente, queste nuove conoscenze sul “chi siamo” hanno spalancato le porte a nuovi ed interessanti filoni di ricerca scientifica che avranno conseguenze cliniche (miglior approcci terapeutici) sia in ambito psichiatrico sia in quello neuropediatrico: cosa accade nei nostri cervelli quando il “corpo soffre”?
A metà degli anni cinquanta del secolo scorso, il neurochirurgo Penfield, mentre effettuava interventi in anestesia parziale sul cervello di pazienti epilettici, poteva in contemporanea stimolare elettricamente differenti aree del loro cervello. Mentre in alcuni casi la stimolazione elettrica provocava la contrazione di muscoli o la genesi di una sensazione esterocettiva, in altri casi la conseguenza era una forte stimolazione all’interno delle proprie viscere.
In questi casi, l’area stimolata era collocata sotto la tempia, grande non più di una zolletta di zucchero e ben nascosta in una piega della corteccia cerebrale: l’insula.
Oggi tutti sappiamo che l’insula assolve a diversi compiti, tra questi c’è l’elaborazione dei segnali provenienti dall’interno del corpo definiti “enterocezione”.
Questo importante senso, senza il quale non potremmo sopravvivere, assume un ruolo sempre più centrale sia per il nostro “benessere” sia per i nostri apprendimenti e, pertanto, per il neurosviluppo.
Infatti, al di là del dato, che è ormai assodato, che numerose malattie “mentali” sono collegate al modo in cui percepiamo il nostro corpo (enterocezione debole/percezione debole delle emozioni positive, enterocezione superiore/agitazione e panico), quello che emerge è che, in persone con infiammazioni croniche sistemiche si verificano cambiamenti funzionale e strutturali in diverse aree cerebrali.
Le aree cerebrali maggiormente colpite (RMN) sono la corteccia motoria, alcune parti della corteccia parietale e della corteccia cingolata posteriore. Queste aree, importantissime per lo sviluppo della soggettività, hanno mostrato una ridotta funzionalità nei casi in cui l’esaminato era affetto da infiammazione cronica (nello studio specifico erano pazienti con rettocolite ulcerosa o morbo di Crohn).
Le ricerche attuali stano cercando di chiarire come l’infiammazione si trasmette dalle viscere al cervello (attraverso il sangue, attraverso la via nervosa, entrambe?).
Volendo sintetizzare quanto stiamo leggendo potremmo dire che Noi siamo quello che nei nostri cervelli è stato plasmato attraverso cosa i nostri corpi hanno fatto. Ovviamente, lo stato di salute delle nostre viscere non può non svolgere un importante ruolo sull’intero processo di apprendimento.