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Egregio dott. Parisi…


….nel prepararmi a formularle i tradizionali auguri per le prossime festività, mi è accaduto di leggere qualcosa che desidero riferirle.

In un articolo della rivista MIND di questo mese, il Prof. Alberto Oliverio cita il  noto gioco per bambini “Simone dice” come possibile espediente per incrementare i processi inibitori del nostro cervello e quindi, di conseguenza, favorire lo sviluppo della  socializzazione nei bambini distratti. Questa competente osservazione mi ha fatto tornare con i ricordi al 1976 quando il dottor Carl Delacato propose tale “gioco”, adeguatamente dosato in tempi, condizioni e modalità di svolgimento, come momento della terapia neuro-riabilitativa per mia figlia con diagnosi di autismo grave.

In seguito, conobbi il prof. Oliverio in occasione di un incontro associativo dell’ANGSA, e per la prima volta sentii un oratore, cattedratico della “Sapienza”, parlare, nell’ambito dell’autismo, unicamente di cervello (il professore è fondamentalmente un neurofisiologo). Le sue parole suscitarono il mio interesse in quanto esse sembravano fornirmi una coerente spiegazione degli incredibili miglioramenti ottenuti da mia figlia con questo “gioco” e con gli altri che mi erano stati proposti. In successivi incontri, appresi molto dalle sue parole e dalla lettura di suoi numerosi testi ma compresi anche che il prof. Oliverio non era interessato a sperimentare l’effettiva capacità terapeutica di un simile approccio in quanto troppo in contrasto con le linee guida del periodo che perdurano ancora attualmente.

A distanza di molti anni, oggi, nell’articolo citato leggo della possibilità di utilizzare tale “gioco” per sviluppare le capacità inibitorie del cervello dei bambini distratti, senza alcun riferimento a quelli nella sindrome autistica che presentano, come loro principale disturbo, proprio la socializzazione. In pratica fino ad oggi, nessuno si è preso il fastidio di verificare l’attuabilità di un simile approccio nel disturbo autistico in quanto, non essendo un farmaco, per i tecnici preposti esso non può concretamente influire sul cervello il quale, per risentire gli effetti di un trattamento teso al recupero funzionale, richiederebbe (secondo loro) tempi biblici. Tutto questo è in totale opposizione con quanto scoperto e riconosciuto ampiamente nelle ricerche sulla plasticità del cervello negli ultimi trenta anni impedendo così l’affermarsi di un approccio che invece potrebbe risultare valido per tanti soggetti e, cosa di principale importanza, ridurrebbe drasticamente l’attuale sconsiderato uso di farmaci

Caro dott. Parisi, sono convinto di averle procurato una profonda amarezza con queste mie poche parole e le chiedo scusa. In questo periodo di tradizionali festività è meglio pensare che certamente un giorno i genitori dei bambini nel disturbo si sveglieranno dalla loro forzata inattività imposta da 80 anni dal pensiero corrente sul disturbo, e riprenderanno a “giocare” con i loro bambini seguendo il loro istinto naturale. Ci vorrebbe una rivoluzione ma forse non basterebbe in quanto è stato troppo radicato in tutti noi l’aspetto esoterico della scienza e questo ha bloccato anche la più tenace delle iniziative di cambiamento.

Auguri affettuosi di Buon Natale a lei e a tutta la sua famiglia!

Sergio Martone.

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