Già 2400 anni fa Aristotele descriveva l’uomo come un animale sociale, perchè tende per natura ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società.
Gli antropologi ci hanno indicato che circa due milioni di anni fa è comparso il genere Homo, che aveva un cervello più grande e nuove abilità nel fabbricare utensili in pietra. Questa abilità, in origine, favorì la collaborazione per la competizione e, centocinquantamila anni fa, contribuì ad inaugurare l’era degli umani moderni (Homo sapiens sapiens), cioè di primati capaci di contrassegnare l’identità di gruppo come nessun’altra specie vivente.
Possiamo dire che da centocinquantamila anni abbiamo dato vita ad un famoso proverbio “africano”: da soli si va più veloce, ma insieme si va più lontano”.
A ben pensarci, per ogni specie, la storia della vita ci mostra che i legami di interdipendenza appaiono una regola, se non un obbligo.
Questo ci aiuta a comprende che, per le specie viventi, la “definizione di sè” doveva assumere una notevole necessità.
Infatti, ogni singolo organismo ha la necessità di stabilire una separazione rispetto all’ambiente circostante, identificando una sorta di recinto (chimico-fisico) del sè. Allo stesso tempo, ogni singolo organismo deve consentire che materiali ed informazioni o stimoli lo “attraversano” per consentirgli di sopravvivere, prosperare, riprodursi.
Per la biologia evolutiva, noi siamo interdipendenti perchè siamo biologicamente male equipaggiati ad esistere in quanto individui solitari (una limitata forza muscolare rispetto agli altri animali). Per questo, insieme, in una tribù, cambia tutta la storia.
Di recente, le neuroscienze ci hanno fornito una preziosa conoscenza. Ci hanno fatto conoscere che, dall’evoluzione di questo sistema di interazione, i nostri corpi hanno “sviluppato” anche un sistema mente.
Da una prospettiva tipicamemte umana, abbiamo appreso che due milioni di anni fa si è evoluto un processo psicologico radicalmente nuovo che è stato definito: “intenzionalità congiunta basata su un’agentività congiunta”. La psicologia dello sviluppo ci ha chiarito che un agente congiunto comprende “due sè” che hanno un obiettivo congiunto, strutturato da un’attenzione congiunta, ciascuno dei quali ha, al contempo, il proprio ruolo e la propria prospettiva. Inoltre, abbiamo appreso che lo sviluppo di questo agente congiunto gettò anche le basi per lo sviluppo di una “nuova cognizione e di una nuova socialità” tipicamente umana (Homo sapiens sapiens).
Dall’intenzionalità congiunta si sviluppò l’intenzionalità collettiva, cosa che richiese lo sviluppo di una prospettiva “oggettiva”, cioè “indipendente da qualsiasi sè”.
In altri termini, persone che parlano come me, preparano il cibo come me, condividono le mie pratiche culturali sono membri del mio gruppo.
Per tutto questo, non ci meravigliamo di fronte al conseguente sviluppo anche del nostro “sistema mente” e dell’interesse che, fin dalle nostre origini, abbiamo mostrato per la nostra mente.
A tal proposito, è sempre bene ricordare ricordare che, da oltre mezzo secolo, la comunità dei neuroscienziati ha preso le distanze dal pensiero di Renè Descartes.
Per il filosofo francese (ha condizionato per oltre tre secoli lo studio della mente nel mondo occidentale come nessun altro) gli animali non umani erano poco più che macchine, con risposte obbligate alle sollecitazioni esterne. Solo gli uomini, per la presenza di una “sostanza pensante”, impalpabile, opposta alla materia, erano provvisti di mente.
La mente era qualcosa di diverso dal resto del corpo (dualismo).
Come accennato sopra, da mezzo secolo, le neuroscienze hanno dimostrato che la mente, così come la coscienza, non sono separabili dall’anatomia e dalla fisiologia del corpo (di cui il cervello fa parte).
Negli ultimi decenni si è andato ancora oltre.
E’ stato dimostrato che le abilità mentali le sviluppiamo a mano a mano che i nostri corpi si sviluppano “facendo esperienza”.
Ovviamente, questo processo è correlato allo sviluppo dei nostri sistemi nervosi o cervelli.
Appare superfluo ricordare che queste nuove conoscenze hanno fatto collassare ogni dualismo mente/cervello e ci hanno spinto a sostenere che tutti gli schemi mentali che costruiamo devono necessariamente avere specifici correlati neurali (psicostato/neurostato).
Gli apprendimenti non rappresentano altro che i cambiamenti chimici e morfologici delle nostre sinapsi.
Per questo, anche la prospettiva dalla quale studiamo il nostro cervello è cambiata molto negli ultimi anni.
Infatti, negli ultimi decenni, le neuroscienze hanno sostenenuto che i nostri cervelli, altro non sono, che dispositivi sensori-motori.
Tutto questo non per sminuire l’importante funzione svolta dai nostri sistemi nervosi ma, soprattutto, per comprendere i vincoli biologici che rendono così preziosi i nostri dispositivi sensori-motori.
Un importante vincolo biologico è rappresentato dal fatto che i sistemi sensoriali ricevono costantemente informazioni dall’ambiente attraverso i recettori disposti sulla superficie del corpo. Queste informazioni devono essere trasdotte in attività elettrica o potenziali d’azione che percorrono circuiti neuronali continuamente “rimodellati” dall’attività nervosa.
In effetti, negli ultimi venti anni, le neuroscienze hanno fatto registrare sensibili progressi di conoscenza, arrivando a delineare le interfacce molecolari che mettono in comunicazione interno/esterno, trasducendo stimoli fisici (pressione, temperatura,) in impulsi elettrici (P.A.) che arrivano al cervello, suscitando attivazione e sincronizzazione di circuiti sensori-motori (l’importanza di tale questione è testimoniata dalle assegnazioni dei premi nobel per la medicina ad Ardem Patapoutian ed a David Jiulius nel 2021). Senza, peraltro, dimenticare un altro nobel (2000), E.Kandel, che aveva dimostrato come l’apprendimento è legato a cambiamenti chimici interni alle sinapsi coinvolte nel passaggio delle informazioni sensoriali o P.A.
E’ propria questa capacità costante di “rimodellare” la rete neuronale, da parte delle stimolazioni sensoriali, che ha spinto le neuroscienze moderne ad affermare che “siamo la nostra storia”. Si riesce anche a comprendere che, tutto quanto apprendiamo (modifica dei circuiti neuronali) cambia il nostro modo di apprendere (la rete è modellata e rimodellata dalle informazioni sensoriali trasdotte in P.A.).
Un altro importante vincolo biologico è rappresentato dal fatto che le informazioni provenienti dalle varie submodalità sensoriali si integrano tra di loro per consentirci di percepire in maniera modale (vedo la penna) e non submodale (colore, forma, movimento).
In effetti, le cellule nervose, ad ogni livello organizzativo, sono preposte ad astarre informazioni dal contesto (S. Zeki). Alcuni neuroni, posizionati in specifici circuiti sensori-motori, astraggono il colore, altri un’inclinazione, altri il movimento. Dalla sincronizzazione di tutti questi circuiti sensori-motori, l’organismo proprietario del dispositivo “astrae” la visione dell’oggetto nella sua interezza (informazione di un livello più alto). Dalla sincronizzazione di circuiti sensori-motori appartenenti a differenti modalità sensoriali, l’organismo astrae informazioni ad un livello altissimo. Per questo, “ascoltando penna vede la penna” e può prendere la penna (sincronizzazione tra udito-vista-tatto).
Viviamo in un tempo fortunato; viviamo in un tempo ove non è più un mistero “rintracciare” le origini della nostra mente.
C’è ancora un vincolo biologico che dobbiamo chiarire: tutte le informazioni sensoriali (P.A.) viaggiano verso le cortecce, ma anche verso il basso, per regolare il flusso sensoriale e la risposta motoria.
Questo significa che nei nostri cervelli non ci sono solo aree visive, uditive, tattili, olfattive, gustative, enterocettive, limbiche, pre-motorie, motorie, mnemoniche (ippocampi). Nei nostri cervelli devono esserci necessariamente anche aree o organizzazioni neuronali che svolgono la funzione di “filtro sensoriale”.
Come tutti i circuiti neuronali, anche questi circuiti sensori-motori devono “svilupparsi” (selezione e potatura sinaptica).
Un disordine dello sviluppo di queste circuiterie potrebbe essere responsabile dell’atipico sviluppo della “mente” nel bambino con autismo.
Quando, i clinici del settore, chiederanno agli anatomisti di fornire loro maggiori conoscenze sulla natura dei circuiti sensori-motori che svolgono la funzione di “filtro sensoriale”?