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Le terapie possono essere dannose

Tra gli anni 60 e 90 del secolo scorso, quelli in cui mi sono formato accademicamente, la ricerca biologica sull’autismo è stata denigrata. I pochi ricercatori che applicavano i principi biologici alla base della comprensione del disturbo autistico in età evolutiva venivano considerati, nella migliore delle ipotesi, biologi deterministi, che ignoravano i processi psicologici e sociali.

Non vi sono più dubbi ,oggi, sul ruolo della biologia nella genesi del disturbo autistico. L’autismo è causato da un cattivo funzionamento dei circuiti neurali conseguenziale ad una noxa patogena nella sfera cervello/corpo/ambiente, tenendo presente che, quando parliamo di ambiente, non ci riferiamo ai genitori, all’abitazione o al vicinato.

Siamo però all’inizio. Quali sono le sfide più importanti in un futuro vicino? Senz’altro una sfida importantissima sarà quella di individuare sempre più cause biologiche capaci di dare origine all’anomalo funzionamento cerebrale e, dunque, a quei psicostati convenzionalmente etichettati “autismo”. Inoltre, l’approccio biologico non significa accettare un destino già scritto. Facendo ricorso alle neuroscienze si può intervenire sulle basi biologiche dell’autismo e, dunque, altra sfida importante sarà quella di promuovere protocolli terapeutici che meglio “sfrutteranno” la plasticità neuronale (argomento dei prossimi articoli). A tal proposito, ritengo doveroso fare una precisazione.

Tutte le terapie che funzionano hanno un rischio iatrogeno, dai farmaci alla chirurgia, non c’è motivo per cui la neuroriabilitazione o una psicoterapia (approccio cognitivo/comportamentale o A:B:A.) dovrebbero fare eccezione. Se una terapia non fa, potenzialmente, anche male, vuol dire che non fa niente. Penso che, nella comunità scientifica, riconoscere i danni di un trattamento terapeutico sia essenziale perfino per affermarne la validità. Purtroppo, sia per la neuroriabilitazione che per l’approccio cognitivo/comportamentale, manca qualsiasi controllo scientifico esterno, fatta eccezione di quello importantissimo da parte dei genitori. Non vi sono dubbi, la questione risulta essere molto complicata, anche perchè, è difficile stabilire quale sia veramente un danno provocato dal trattamento terapeutico. Infatti, c’è chi migliora ma magari sarebbe migliorato ancor di più con un’altra terapia, o chi peggiora ma senza quella terapia si sarebbe aggravato. Altra fonte di preoccupazione è che, ancor più che nelle cure farmacologiche, in questo ambito, il ruolo del terapista (neuroriabilitatore, psicologo, educatore) e della sua relazione con il paziente, rende impossibile standardizzare gli interventi.

Come possiamo misurare gli eventuali danni prodotti dalla terapia in atto? Come un genitore può provare a difendere il proprio bambino?

1) La mia proposta è quella di non dare inizio ad un trattamento terapeutico per l’autismo qualora la famiglia non abbia ricevuto sufficienti informazioni sui principi e sulle modalità dell’intervento proposto. Inoltre, è necessario che il tecnico di turno dia spiegazioni sulla genesi del disturbo comportamentale da correggere, in termini biologici e non sociali o relazionali. Allo stesso tempo, vada a chiarire al genitore come quella tecnica o metodologia proposta possa modificare sia la biologia che la clinica (impossibile modificare la seconda senza modificare la prima). I genitori devono sempre avere chiaro che cosa stanno per fare, i principi ed i metodi su cui poggia il trattamento proposto.

2)Capire se quella tecnica o metodologia proposta, pur valida, sia adatta al caso in questione (nel caso dell’autismo è di fondamentale importanza l’età del soggetto da educare/riabilitare). Bisogna sempre diffidare da quelle proposte terapeutiche che curano tutto, poichè i disturbi del comportamento hanno un substrato neurale differente in base all’età del soggetto che li manifesta, di conseguenza non esiste un approccio che può essere valido indipendentemente dall’età (sia che si tratti di un approccio sensori-motorio, sia di uno cognitivo-comportamentale).  Una buona terapia non è tale se non ha chiarito, ai genitori, le idee sul perchè il loro figlio non parla, sfarfalla con le mani, si agita, preferisce sempre lo stesso oggetto, si toglie scarpe e calze e ama stare sul pavimento, si riempie eccessivamente la bocca, deglutisce senza masticare, non ama farsi toccare la bocca, imbratta tutto con la saliva o solamente le superfici lisce.

3)Prima di ogni controllo clinico è utile rispondere ad un breve questionario su come procede il percorso terapeutico e sugli obiettivi raggiunti e su quelli difficili da raggiungere.

Una regola generale, da consigliare ai genitori, dovrebbe essere quella di : “se dopo 4 o 5 mesi quel papà o quella mamma si sentono più confusi di prima, allora bisogna rispettare che ci sia qualcosa che non va nella scelta terapeutica fatta, e non considerare il quadro clinico non migliorabile”.

Siamo chiamati a fare i conti con i dati che le neuroscienze ci propongono.

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