Le nostre conoscenze del mondo sono precedute da una catena di eventi biologici, della maggior parte dei quali non siamo minimamente consapevoli. Ad esempio, la luce proveniente dalla finestra illumina la poltrona posta innanzi ai miei occhi e ne viene in parte riflessa. Alcuni dei raggi luminosi riflessi vanno a colpire la retina, situata sul fondo dell’occhio. Quest’informazione viene trasdotta in energia elettrica che viene trasmessa attraverso varie strutture anatomiche fino alle cortecce cerebrali visive. A tale livello l’attività elettrochimica o nervosa diventa l’esperienza soggettiva del vedere la mia poltrona, ovvero quell’esperienza che rappresenta l’anello finale del processo. Premesso che della luce non sapremmo che farcene se non avessimo anche un sistema visivo ed una poltrona, ovvero il mondo attorno a noi (approccio sensori-motorio), è sul sistema visivo che ho concentrato i miei studi. Durante la mia formazione di medico (iniziata nel 1978), per gran parte del tempo mi è stato insegnato che: l’occhio cattura la luce e la converte in messaggi nervosi, le vie visive trasportano questi messaggi dall’occhio al cervello, le aree visive del cervello li INTERPRETANO. E’ quest’ultimo punto la vera nota dolente. Pur non fornendo verità assolute, la scienza consente di acquisire maggiori conoscenze con il tempo. Ebbene, allo stato, è giusto chiarire che il termine “interpretano” è, esclusivamente, una licenza poetica.
Abbiamo una mole enorme di lavori scientifici, oltre che di osservazioni cliniche (tra queste i casi di autismo), che non possono più farci pensare che l’immagine retinica sia una specie di fedele rappresentazione in scala ridotta del mondo, e che al cervello vengano semplicemente inviate istruzioni dettagliate per riprodurla più in grande. Il cervello non è un traduttore dell’informazione grezza, inviata ad esso dalle vie sensoriali, sul mondo fuori di noi. Dunque, il cervello non traduce e non interpreta.
Basta pensare che oggi, a tutti gli studenti di medicina, sin dai primi anni, viene insegnato che l’immagine retinica non è statica poichè cambia ogni volta che si muovono gli occhi. Questo si verifica non solo quando volontariamente sposto lo sguardo, ma anche quando, poco fa, ho fissato per diverso tempo la mia poltrona. Eppure quella poltrona era ferma!
Altra informazione, da subito data agli studenti di medicina, è che i raggi luminosi riflessi dalla mia poltrona non sono fra loro più vicini di quelli riflessi dal pavimento o dal camino posto dietro, nè sono in alcun modo raggruppati o collegati. Eppure quella poltrona mi appare come un oggetto unitario, ben staccato dal suo sfondo e, nonostante l’immagine retinica sia piatta, per cui le distanze non possono esservi direttamente rappresentate, quella poltrona ha tre dimensioni!
Inoltre, gli studenti sanno che la quantità e la qualità della luce che, dopo essere stata riflessa dalla mia poltrona raggiunge le mie retine, cambierà tra poco, quando cambierà l’illuminazione nella mia stanza. Eppure, quella poltrona avrà colore e chiarezza costante!
Allo stesso tempo, la grandezza dell’immagine retinica cambia ogni volta che mi avvicino, o mi allontano, dalla mia poltrona. Eppure, mi appare sempre delle stesse dimensioni!
Non è più tempo per prestare attenzione alle vecchie concezioni (informazione sensoriale grezza entra nel sistema nervoso, strutture corticali gerarchiche interpretano l’informazione e danno disposizione ai muscoli). Oggi le neuroscienze ci fanno “sapere” che per vedere abbiamo bisogno di aver fatto “pratica” sin dalla nascita. Se io avessi avuto gli occhi chiusi sin dai primissimi mesi di vita, pur riaprendoli oggi, sarebbe stata vera utopia comprendere a che distanza si trovino le cose. Vedere il mondo in tre dimensioni non significa essere intelligenti, oppure avere un cervello che” interpreta” bene la realtà esterna, bensì aver avuto una catena di eventi biologici organizzatisi in maniera funzionale. Oggi, solo chi non ha continuato ad informarsi, non sa quello che gli studenti in medicina conoscono bene, ovvero che senza accomodazione, convergenza, disparità binoculare non è garantita la visione tridimensionale.
Per molti dei bambini che vengono da me visitati scendere le scale fa paura perchè, per loro, una gradinata non è un oggetto tridimensionale ma una superficie varcata da linee senza significato, oppure un vuoto. Allo stesso tempo, i lampioni giù in strada potrebbero essere macchie luminose attaccate al vetro delle finestre, come le gambe che fuoriescono da una gonna potrebbero essere staccate dal corpo. Anche distinguere una carota dalla fotografia della carota potrebbe essere impossibile.
Per le vecchia psicologia (cognitivista o dall’homunculus, posto nel cervello, che interpreta) questi bambini hanno difficoltà perchè, indipendentemente dall’etichetta diagnostica, hanno un ritardo mentale. Per le moderne neuroscienze l’obiettivo è comprendere come, la luce che cade sulla retina (superficie piana) genera forme tridimensionali. Da questa nuova prospettiva non dovrebbero meravigliarci alcuni deficit dei bambini con autismo, bensì le nostre abilità. Come ha fatto il mio sistema nervoso, che ha ricevuto una proiezione bidimensionale, a “generare” l’esperienza di una realtà a tre dimensioni?
Potrebbe aiutarci a capirne di più la professoressa Tina Iachini, invitata dal Centro studi Delacato a tenere, sabato prossimo, un incontro a Sorrento.