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La paura dei volti e lo sguardo sfuggente

Nel 1872 Charles Darwin descrisse le espressioni facciali usate dagli animali per esprimere emozioni, ciononostante, noi esseri umani non ci mostriamo molto bravi nel decifrare gli stati emotivi delle altre specie guardandone solo il volto, e non solo. Infatti, non lo siamo stati nemmeno verso i neonati ( lo studio sul dolore dei neonati, anch’essi senza linguaggio verbale, ma dalla mimica sviluppata, dimostrano come le loro smorfie sono rimaste indecifrabili ai medici) e non lo siamo, tuttora, verso bambini con problematiche del neurosviluppo (molti tecnici sono convinti che i soggetti autistici non “sentono” le emozioni, oppure che non fissano l’interlocutore con lo sguardo per il disagio di essere riconosciuti autistici).

Non vi sono dubbi, in natura, il volto ha un ruolo cruciale.

Anche senza volerlo, la nostra mimica svela molto di noi.

Per tale motivo, categorizzare e riconoscere i volti risulta, per gli esseri umani, un’abilità (psicotipo) fin dalla nascita di vitale importanza, rappresentando l’elemento chiave di molte interazioni sociali, pertanto, deve essere garantita da circuiti neuronali (neurotipo) specifici.

Anche se, riconoscere l’identità di qualcuno dal suo volto è altra cosa dal saperne interpretare le emozioni, per tantissimi ricercatori, molti animali (pecore, cani, cavalli, piccioni, corvi, ecc.) hanno regioni del proprio S.N.C. dedicate al riconoscimento facciale, potendo riconoscere addirittura i volti degli esseri umani a loro ostili.

Esistono persone in cui, anche solo IL CONTATTO VISIVO CON L’INTERLOCUTORE PUO’ DIVENTARE UN OSTACOLO INSORMONTABILE (PAURA DEI VOLTI).

Esistono persone in cui è IMPOSSIBILE MANTENERE IL CONTATTO VISIVO CON L’INTERLOCUTORE (SGUARDO SFUGGENTE), POICHE’ HANNO ACCESSO AD ALCUNE CONOSCENZE VISIVE SOLO CON LO SGUARDO PERIFERICO.

Uno studio scientifico recente ha svelato alcuni meccanismi cerebrali (neurotipo) sottostanti alla paura dei volti (psicotipo): nel CERVELLO di queste persone, infatti, è stata osservata un’ iperattività di specifiche aree cerebrali, sia quelle collegate alle reazioni di paura e di ansia (corteccia prefrontale, solco temporale superiore, globo pallido, amigdala), sia quelle tipicamente visive (corteccia occipitale visiva).

La sorpresa maggiore dei ricercatori è stata quella di trovare particolarmente attiva proprio la corteccia visiva (sensoriale) che elabora gli stimoli provenienti dalla retina, permettendo così di riconoscere i volti. Vista e paura (aree cerebrali necessarie per elaborare emozioni) risultano collegate da vere e proprie strade (connettoma), solo che non sono situate sulla mappa geografica, ma dentro al cervello.

Questi studi, ed i loro risultati, contribuiscono a migliorare le nostre conoscenze su molti aspetti clinici presenti nei bambini con disordine dello sviluppo neurologico (ad esempio la paura per una mano che si muove davanti agli occhi senza il mio controllo) ed, inoltre, ci fanno riflettere sulla superficialità di alcune proposte terapeutiche.

Uno degli aspetti tipici dell’autismo è rappresentato “dallo sguardo sfuggente”, dall’incapacità, da parte del bambino autistico, di mantenere l’aggancio visivo.

Le neuroscienze moderne, in rottura con le vecchie concezioni localizzazioniste, ci presentano un modello in cui, ogni abilità comportamentale (psicotipo) è sostenuta da un intero pattern di attivazioni, dove la disattivazione di alcune popolazioni di neuroni risulta essere altrettanto importante.

Guardare un viso, riconoscerlo, provare un’ emozione, riconoscerla, è una funzione ampiamente distribuita, richiedente un’organizzazione, ovvero uno sviluppo ontogenetico, che si realizzerà, progressivamente, con la crescita, e che, qualora alterato, da una noxa patogena, genera disordine.

Allo stesso tempo, vedere un oggetto che si muove davanti ai propri occhi, poi vederne le forme, i colori, aumentarne il contrasto dallo sfondo fissandolo sulla fovea (parte centrale della retina), richiede un livello di organizzazione neurologica che si svilupperà nelle prime fasi della vita e condizionerà tutto il processo di integrazione sensoriale e, dunque, una varietà di sintomi e segni neurologici.

Per le moderne neuroscienze, non vi sono dubbi sul fatto che, sia la paura dei volti che lo sguardo sfuggente, trovano una spiegazione nel cervello.

Abbiamo visto come, alla vista della faccia di uno sconosciuto, il cervello di chi soffre di fobia sociale si attiva di più, sia nelle aree e nei circuiti neuronali legati alle emozioni (paura), sia nelle aree delle cortecce visive (occipito-parietali).

Allo stesso tempo, soggetti con disordine dello sviluppo neurologico con problematiche visive, manifestano alle neuroimmaging, alterazioni in queste circuiterie neuronali (basta leggere il cervello autistico di Temple Grandin) E DI MOLTE ALTRE.

Quello che, da un punto di vista clinico e, soprattutto, terapeutico riveste notevole importanza è il saper fare una diagnosi differenziale tra le fobie per i volti e lo sguardo sfuggente del bambino autistico.

Pertanto, prima di prescrivere una terapia è necessario che, lo specialista valuti, non solamente il sintomo, ma anche :

-età di insorgenza della manifestazione (la fobia sociale richiede un neurosviluppo avanzatissimo e, pertanto, non può che comparire dopo i 5/6 anni di età, mentre il quadro clinico dello spettro autistico fa il suo esordio già tra il primo e secondo anno di vita).

-presenza di altri segni e sintomi neurologici (nella fobia sociale la disorganizzazione neurologica è specifica di una circuiteria neuronale, e COMPARE QUANDO IL CIRCUITO ERA GIA’ ORGANIZZATO, nello spettro autistico la disorganizzazione neurologica è più estesa, il PROCESSO DI APPRENDIMENTO O ORGANIZZAZIONE HA SUBITO NOTEVOLI ANOMALIE e, dunque, il quadro clinico sarà necessariamente più “ricco”).

-l’elettroencefalogramma (nella paura dei volti l’e.e.g. sarà nei limiti della norma oppure tra le varianti possibili della norma, per la maggiore presenza di attività rapide o onda beta, mentre nello spettro autistico l’e.e.g. risulta essere mal modulato e rallentato per l’età, per la corposa presenza di onde delta e teta).

Tutto questo per affermare che, le fobie sociali e lo sguardo sfuggente dello spettro autistico, sono due quadri clinici neurologici molto differenti dal punto di vista anatomo-patologico e, dunque, fisiopatologico.

Pertanto, se per una condizione (fobia sociale) trova validità scientifica una terapia farmacologica (SSRI) ed una terapia cognitivo/comportamentale, come si può pensare che la stessa cura (terapia cognitivo/comportamentale, serotoninergici) possa giovare anche alla seconda condizione (autismo infantile), che risulta del tutto differente per modalità e per livello di circuiteria neuronali coinvolte?

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